Buone notizie per chi fa 'macinare' la mente. Tenere il cervello allenato, infatti, protegge dalla malattia di Alzheimer, un problema che affligge circa 500 mila italiani. Lo rivela uno studio multicentrico europeo coordinato dal San Raffaele di Milano: chi ha un alto grado di istruzione o svolge un'attività intellettualmente impegnativa sviluppa, infatti, una sorta di 'cervello di scorta' che rallenta i sintomi della malattia. Anche il cervello, come un atleta in palestra, sviluppa i propri 'muscoli' per affrontare al meglio i compiti più impegnativi: si tratta delle sinapsi, i collegamenti tra neurone e neurone indispensabili per il suo funzionamento. Se la malattia danneggia i neuroni e le loro connessioni, un cervello ben allenato trova il modo di cavarsela lo stesso, utilizzando tutte le altre, come riserva. Lo studio ha coinvolto numerosi centri in Europa coordinati dai ricercatori dell'Università Vita-Salute San Raffaele e dell'Istituto Scientifico Universitario San Raffaele. La ricerca si è svolta per 14 mesi su oltre 300 pazienti malati di Alzheimer e 100 anziani con lievi disturbi della memoria.
I soggetti svolgevano varie professioni, dalla casalinga al manager, e avevano differenti livelli di istruzione, dalla scuola dell'obbligo alla laurea. I ricercatori, valutandone lo stato di salute, si sono resi conto che chi aveva un grado di istruzione maggiore o svolgeva un'attività intellettualmente più intensa manifestava i sintomi dell'Alzheimer più tardi rispetto, per esempio, a casalinghe o disoccupati. E questo nonostante la malattia ne avesse già danneggiato i neuroni e le sinapsi, condizione che normalmente è causa dei terribili sintomi della malattia, tra cui la perdita di memoria che si manifesta come incapacità di ricordare volti, nomi e anche gli avvenimenti della giornata.
Un esempio: una casalinga e un medico avevano il compito di ricordare il nome di oggetto. Per farlo entrambi cercavano di attivare la specifica rete di neuroni che conserva quel ricordo. Questa rete, però, era stata danneggiata dalla malattia: mancavano nodi (i neuroni) o c'erano alcune maglie danneggiate (le sinapsi). Teoricamente, quindi, nessuno dei due avrebbe dovuto ricordare quel nome: ma il medico, a differenza della casalinga, ci riusciva. Come è possibile? Merito, dicono gli studiosi, della presenza di un 'cervello di scorta' scoperto grazie alla tomografia ad emissione di positroni (Pet) e che hanno definito riserva funzionale.
A causa dell'intensa attività intellettuale, infatti, il cervello delle persone più istruite aveva sviluppato più sinapsi: non potendo utilizzare una sinapsi danneggiata dalla malattia, il loro cervello ne ha utilizzato una di riserva, raggiungendo così egualmente il proprio obiettivo. Ma come hanno fatto gli studiosi a valutare i danni causati dalla malattia nei pazienti? Grazie al glucosio, un semplice zucchero, che costituisce la benzina del cervello: è infatti l'alimento che nutre i neuroni.
I ricercatori, attraverso la Pet, hanno misurato il consumo di glucosio del cervello: tanto più bassa ne era la quantità bruciata, tanto più ridotto era il numero di neuroni e sinapsi ancora esistenti. "Il nostro cervello - spiega Daniela Perani, coordinatrice dello studio, neurologa ed esperta di neuroimmagini dell'Università Vita-Salute San Raffaele e dell'Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano - possiede grandi capacità plastiche, cioè è molto abile nell’adattarsi e svilupparsi per svolgere al meglio quei compiti per noi più gravosi o importanti".
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