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Cassazione, medici meno responsabili se non c'è cartella clinica

Medlex Redazione DottNet | 29/07/2018 18:13

La colpa dei medici è meno grave nel caso di mancata conservazione della cartella clinica dopo l’iter delle cure: ai camici bianchi restano in ogni caso gli addebiti di responsabilità per il decesso di una paziente

La  Corte di cassazione, con la sentenza numero 18567/2018 (clicca qui per scaricare il testo completo), ha fatto chiarezza su un aspetto importante dell'organizzazione ospedaliera e dei rapporti sanità/pazienti, ovverosia su quale sia il soggetto responsabile della conservazione delle cartelle sanitarie

Il principio di vicinanza della prova, fondato sull’obbligo di regolare e completa tenuta della cartella sanitaria, non può operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione.

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Gli Ermellini si sono pronunciati sul contenzioso scaturito dal decesso di un paziente in seguito a un intervento operatorio. L’uomo presentava una "sindrome coronarica acuta e stenosi dei vasi coronarici". Era stato quindi sottoposto a una rivascolarizzazione miocardica tramite innesto di cinque bypass. Dopo l’operazione, tuttavia, erano insorte delle complicazioni che lo avevano condotto alla morte. Di qui la pretesa risarcitoria avanzata dai parenti nei confronti della struttura sanitaria che aveva a sua volta chiamato in causa il chirurgo, l’anestesista e l’assistente.

Dopo i primi due gradi di giudizio la causa era approdata davanti alla Suprema Corte di Cassazione. In tale sede i Giudici hanno osservato che il passaggio della responsabilità nella tenuta della cartella sanitaria è rappresentato dalla consegna della stessa da parte del medico all’archivio centrale.

Prima della consegna, infatti, è il sanitario a essere gravato dell’obbligo non di compilare e di conservare la cartella sanitaria. Successivamente la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla struttura.

I ricorrenti hanno sostenuto che il decesso fosse stato causato dalla mancata sospensione del trattamento antiaggregante in corso, dal mancato tempestivo inizio della profilassi antibiotica per prevenire l'insorgere dell'infezione e dal ritardo con il quale era stato eseguito l'intervento chirurgico per contrastare l'infezione insorta. Il ricorso è stato effettuato contro la struttura (casa di cura) dove i fatti si sono svolti non ritenendo di estendere il contraddittorio ai medici coinvolti.

La casa di cura invece aveva chiamato in causa il chirurgo, l'anestesista e l'assistente, contestando l'ammissibilità e utilizzabilità dell'elaborato del perito, non essendo stato egli parte del procedimento di istruzione preventiva. E contestando l’esistenza di una propria responsabilità.

Anche i medici a questo punto si costituivano affermando che le scelte tecniche in un paziente ad alto rischio spettavano al capo equipe, che la terapia antiaggregante era stata correttamente sospesa prima dell'intervento, che il secondo intervento si era reso necessario ed effettuato non appena riscontrata la presenza di sanguinamento delle suture, e che la terapia antibiotica era stata correttamente eseguita, iniziata prima dell'intervento e poi modificata in considerazione della non reattività del paziente alle cure.
 
La sentenza
Nella sentenza di primo grado il Tribunale ha condannato struttura e medici a risarcire i danni agli eredi.  In particolare, preso atto che le parti non avevano portato prove a proprio carico non avendo prodotto la cartella clinica, il Tribunale ha ritenuto valido il solo profilo di responsabilità relativo alla mancata prevenzione e al deficitario  trattamento dell'infezione, per omessa somministrazione di copertura antibiotica.

La clinica non ha impugnato la sentenza di primo grado passata quindi in giudicato nei suoi confronti. Contro la sentenza ricorrevano in appello due medici lamentando che il Tribunale non avesse disposto una consulenza tecnica d'ufficio e comunque criticando la sentenza per non aver attribuito alcuna percentuale di responsabilità all' anestesista.

La Corte d'appello sospendeva l'efficacia esecutiva della sentenza solo per le condanne relative ai due medici ricorrenti, chiedendo una consulenza tecnica collegiale, nominando un medico legale e un cardiologo. Durante la consulenza è emerso che la clinica aveva denunciato lo smarrimento della cartella clinica.

Alla fine la Corte d'appello ripartiva diversamente le responsabilità e affermava che la causa della morte della paziente doveva ricondursi alla comparsa di una infezione nosocomiale, imputabile a carenze strutturali e organizzative della casa di cura.

Aggiungeva però che anche il comportamento dei tre sanitari non fosse del tutto esente da responsabilità, muovendo loro tre specifici addebiti:
il primo nel non aver somministrato l'antibiotico al paziente nell'immediatezza del taglio chirurgico e con tempestività nel decorso post-operatorio;
il secondo addebito era legato
al re-intervento per tamponamento cardiaco, dovuto probabilmente dalla mancata sospensione in tempo utile, precedente all'operazione, della terapia antiaggregante piastrinica;
il terzo profilo di addebito era individuato nella mancata adozione della tecnica chirurgica della scheletrizzazione delle arterie mammarie.

Nelle sue conclusioni la Corte d'appello affermava che le carenze od omissioni della cartella clinica non potevano ripercuotersi a danno del paziente perché si trattava di documentazione che è obbligo del medico e della struttura sanitaria non solo compilare ma, anche e soprattutto, conservare per dimostrare la correttezza dell' iter diagnostico, terapeutico e curativo seguito nel caso.

Per la Cassazione il momento del  passaggio della responsabilità  è rappresentato dalla consegna della cartella dal medico all'archivio centrale. Quindi "il principio di vicinanza della prova, fondato sull'obbligo di regolare e completa tenuta della cartella, le cui carenze od omissioni non possono andare a danno del paziente … non può operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione".
Anzi: gli stessi medici, in caso di smarrimento della cartella, rischiano di non poter documentare le attività che erano state regolarmente annotate e possono trovarsi quindi in una  posizione simmetrica a quella del paziente.
Quindi è giusto in assenza della cartella che i medici non subiscano addebiti dovuti al fatto di non poter riscontrare l’iter seguito nell’assistenza, ma è anche giusto, come ha fatto la Corte d’Appello che le ha elencate, affermare che i medici non erano comunque esenti da responsabilità.

La Suprema Corte ha quindi colto l’occasione per ribadire i principi che regolano l’obbligo di conservazione della cartella sanitaria. Nello specifico ha sottolineato che in attesa del completamento del processo di digitalizzazione, la cartella va conservata in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni climatiche e non accessibili da estranei. Inoltre, l’obbligo di conservazione della cartella è illimitato nel tempo, perché le stesse rappresentano un atto ufficiale.

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