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Dal Corriere della Sera: Piccole grandi cure

Medicina Generale Redazione DottNet | 26/10/2008 08:55

Nanotecnologie. Un valzer di particelle lillipuziane dalle straordinarie capacità. Grazie a loro un farmaco incapace di farlo è riuscito a scavalcare la barriera (detta ematoencefalica) che separa il sangue dai fluidi in cui è immerso il cervello.

 Il medicinale, un analgesico oppiaceo, è la loperamide, che si impiega liberamente per la diarrea proprio perché non «può» arrivare al sistema nervoso. Il nano-autobus è un sofisticato polimero messo a punto da Luca Costantino, chimico farmaceutico dell'università di Modena che lo ha sperimentato con successo nell'animale.
È questa la nanomedicina? La parola chiave per comprendere di che cosa stiamo parlando è il fullerene, chiamato così in ricordo dell'architetto americano Buckminster Fuller, famoso per le sue strutture poliedriche.
Si tratta di una molecola piccolissima, nell'ordine del miliardesimo di metro, che ricorda un pallone da calcio. Prodotto nano-taglia al quale la miniaturizzazione conferisce proprietà che prima non c'erano (in sostanza si manipola la materia a livello molecolare e atomico). In ambito farmaceutico le nanoparticelle promettono di trasportare un farmaco solo nell'organo dove deve agire o di impedirne la distruzione in tempi veloci. O, ancora, di facilitare il passaggio di un tracciante nei tessuti in corso di indagini radiodiagnostiche.


Manca ancora, però, un accordo sul termine «nano», come è stato sottolineato poche settimane fa a Bruxelles al convegno sulla sicurezza di queste nuove tecnologie organizzato dalla Commissione europea. «Perché un prodotto sia "nano" non basta che abbia dimensioni invisibili a occhio nudo; deve acquisire proprietà innovative » precisa Marisa Papaluca Amati, viceresponsabile del dipartimento sulla sicurezza delle medicine dell'Emea, l'Agenzia europea del farmaco. «Alcune medicine in commercio sono nano per dimensioni, ma non sono "nuove"— elenca l'esperta dell'agenzia londinese — visto che si tratta spesso di vecchi medicinali veicolati in liposomi, sostanze polimeriche o sospensioni».
I liposomi sono piccole sfere di grasso rivestite da una sostanza chimica capace di diminuire la velocità di scomposizione del principio curativo e prolungarne così la permanenza nel sangue. Sono già in commercio farmaci antitumorali (la doxorubicina) che li utilizzano.
Sostanze polimeriche, frutto della fusione in aggregati di molecole piccolissime, sono oggi impiegate per rallentare il metabolismo di certi farmaci, e darne perciò quantità minori: succede nella Sclerosi multipla e nelle epatiti croniche.
Principio alla base anche della cura sperimentata a Roma all'ospedale Bambin Gesù dal gastroenterologo Massimo Castro su bambini colpiti dalla fibrosi cistica che devono essere sottoposti a cure prolungate a base di cortisone. La tecnologia è stata messa a punto da Mauro Magnani, professore di biochimica dell'università di Urbino, che spiega: «Si preleva un certo quantitativo di sangue, 50 centimetri cubi, e si tratta con una soluzione salina in modo che i globuli rossi si rigonfino e sulla loro membrana si aprano micropori, attraverso i quali viene inserito un cortisonico, il desametasone. Una volta reimmesse in circolo, queste cellule carrier rilasciano piccole quantità di farmaco per tempi anche superiori ai trenta giorni. Qui il farmaco non è certo "nano" ma lo è la dimensione dei pori e del procedimento». La cura è stata autorizzata dall'Emea come «farmaco orfano» (che non viene messo in commercio, ma è utilizzabile solo in una determinata patologia) per la fibrosi cistica.
«Il vantaggio è soprattutto nel dosaggio — spiega Castro — che si riduce di 50 volte, a parità di efficacia». Dopo i buoni risultati all'ospedale Bambin Gesù, la stessa metodica è stata sperimentata da Vito Annese all'ospedale di San Giovanni Rotondo su una settantina di persone colpite dal morbo di Crohn e dalla colite ulcerosa. Stando a quanto pubblicato finora, con buoni risultati.
Ma l'idea di trasformare i globuli rossi in un sistema biologico a lento rilascio di sostanze in chiave «nano» può essere utilizzato anche per gli esami diagnostici: Magnani sta lavorando su particelle nanomagnetiche inserite in queste cellule per migliorare le immagini della risonanza.
 

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