È considerato l'ultima spiaggia della cura dell'epilessia l'intervento che asporta le aree del cervello da cui si originano le crisi. Eppure uno studio pubblicato dal giornale dell'associazione dei medici americani, Jama, condotto alla Columbia University di New York e in altre università americane, ribalta questa idea: l'opzione chirurgica andrebbe presa in esame molto prima rispetto a quanto si tende a fare oggi perché dà risultati migliori quanto più è precoce.
Utilizzando un modello informatico che ha incorporato i risultati di studi precedenti, i ricercatori hanno trovato che il paziente tipo — un trentacinquenne con una forma di epilessia che origina nel lobo temporale, e che non risponde ad almeno due farmaci — guadagna con l'intervento cinque anni di vita e ne vede migliorare sensibilmente la qualità. In media, si legge sulla rivista americana, per l'epilessia che origina nel lobo temporale (la forma più comune, e che più spesso non risponde ai farmaci) «L' intervento ottiene la guarigione completa nei due terzi dei pazienti, ma l'età avanzata e una lunga storia di epilessia riducono la probabilità di risolvere la malattia».
Secondo gli autori, dunque, la chirurgia dovrebbe essere presa in considerazione quando due regimi terapeutici diversi hanno già fallito e se il paziente ha crisi che compromettono la sua qualità della vita. «Se due farmaci non hanno dato risultati significativi, la probabilità che un terzo abbia effetto è del cinque per cento; l'intervento chirurgico, perciò, non andrebbe ritardato ulteriormente — conferma Giorgio Lo Russo, direttore dell'unità operativa di chirurgia C.
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