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Dal Corriere della Sera: Stop all'infarto

Medicina Generale Redazione DottNet | 01/08/2008 10:53

Quarant'anni fa un infarto era mortale nel 50% dei casi, oggi in terapia cardiologica intensiva si salvano 95 pazienti su 100.
L'importante è arrivare presto a una Utic, l'Unità di terapia intensiva cardiologica. In caso di infarto, chi approda a una di queste strutture specializzate può già tirare un mezzo sospiro di sollievo: oggi 95 ricoverati su 100 si salvano.
 

E fra chi è sottoposto ad angioplastica primaria, la procedura che riapre le coronarie ostruite attraverso un "palloncino", la percentuale sale addirittura al 97%. Dati confortanti che arrivano dallo studio BLITZ-3, un'indagine condotta su oltre 7000 pazienti ricoverati dal 7 al 20 aprile scorso in 332 Utic, presentata a Firenze all'ultimo congresso dell'Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri (Anmco). Passi da gigante rispetto a 40 anni fa, quando incappare in un infarto significava morirne in un caso su due. Merito dei farmaci, delle procedure interventistiche (oggi eseguite sul 45% dei pazienti, tre volte di più rispetto al 2001) e della "rete" cardiologica. Che, evidentemente, ha cominciato a funzionare a dovere.
«Non tutti i centri hanno le stesse dotazioni e competenze: non ovunque, ad esempio, si possono fare angioplastiche in emergenza. Ogni paziente deve essere portato dove troverà i trattamenti più adatti al suo caso: questo è il senso della rete di soccorso cardiologico. Non a caso i "nodi critici" sono proprio dove la rete funziona peggio — spiega Francesco Chiarella, uno dei coordinatori del BLITZ-3 —. Il punto di forza italiano? Queste alte percentuali di sopravvivenza, simili a quelle delle cardiologie d'eccellenza europee o americane, sono omogenee ovunque: esistono differenze regionali, ma sono di scarso rilievo ».


I guai sono per chi in Utic non ci arriva: la metà dei morti per infarto si registra infatti fuori dall'ospedale. C'è da migliorare, quindi, soprattutto perché troppi non hanno ancora capito che alle prime avvisaglie d'infarto bisogna chiamare subito il 118. Niente telefonate al medico, o corse in auto all'ospedale: tutto tempo perso, perché in ambulanza si possono già avere le prime cure. «Inoltre, se l'elettrocardiogramma per la diagnosi di infarto viene fatto a casa e spedito in ospedale, i medici sono già in allerta, non si passa dal pronto soccorso e si arriva subito nel reparto giusto» interviene Salvatore Pirelli, presidente Anmco. Chiarella osserva comunque che vanno ulteriormente "oliati" i percorsi all'interno degli ospedali, per velocizzarli: purtroppo ancora capita di vedere pazienti con un infarto sballottati qua e là, o parcheggiati in pronto soccorso in attesa delle cure. La strada però è quella giusta, e ormai d'infarto si muore meno.
Anche in Europa: i dati raccolti dall'European Heart Network nelle European Cardiovascular Disease Statistics del 2008 indicano che incidenza e mortalità per malattie cardiovascolari sono in calo quasi dappertutto.
Ciò non toglie che infarti, ictus e coronaropatie siano tuttora la prima causa di morte nel vecchio continente e comportino costi altissimi: poco meno di 200 miliardi di euro, secondo le ultime stime disponibili.
Ma nuvoloni neri paiono addensarsi all' orizzonte, soprattutto per l'Italia e Paesi del Sud Europa, come Spagna o Portogallo. Stiamo cambiando le nostre abitudini: incuranti dei messaggi di prevenzione, abbiamo imboccato la strada opposta rispetto ai più saggi nord europei e ci stiamo rovinando da soli. Qualche esempio illuminante: il numero dei fumatori ha smesso di diminuire e ora le donne, in passato meno attratte dalle sigarette, fumano quanto gli uomini. E c'è di peggio: se all'inizio degli anni '90 fumava meno di un quindicenne su dieci, oggi il vizio ce l'ha il 22% dei ragazzi e addirittura il 25% delle ragazze. Per dire: in Svezia sono fermi al 12%.
Un italiano su due non fa mai attività fisica e ogni giorno passa in media da 4 a 8 ore seduto; uno su cinque non si muove nemmeno per dieci minuti nell'arco della settimana. Non va meglio a tavola: stiamo abbandonando la dieta mediterranea e siamo irresistibilmente attratti dai cibi-schifezza, di nuovo in controtendenza rispetto ai nord europei. Da noi è cresciuto il consumo dei grassi, mentre i virtuosi danesi, ad esempio, a forza di sentir magnificare i benefici della dieta mediterranea hanno raddoppiato il consumo di vegetali. «C'è da dire che per noi è più difficile migliorare, perché partiamo da abitudini alimentari più sane — ci difende Pirelli. — Di sicuro però non stiamo facendo abbastanza per la prevenzione, che è il modo più efficace ed economico per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. Ed è preoccupante il dato dell'obesità infantile».
Fra gli under 18 italiani i sovrappeso sono uno su quattro: il doppio rispetto alla Germania; solo Spagna e Inghilterra hanno percentuali simili alle nostre.
«Obesità, fumo, sedentarietà spiegano il 90% degli infarti — interviene Filippo Crea, direttore dell'Istituto di Cardiologia dell'Università Cattolica di Roma. —. Per questo dobbiamo riuscire a educare i bambini alla prevenzione. Fallire con i giovanissimi significa "perderli", perché poi le abitudini non si cambiano tanto facilmente. Convincere un adulto a mangiar sano e fare sport è molto più difficile».
 

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