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Dall'Espresso: Indovina che cosa mangi

Medicina Generale Redazione DottNet | 01/08/2008 11:07

Cos'è questa cosa che sto mangiando? E da dove diavolo arriva? Tutto ha avuto inizio da queste due (all'apparenza) semplici domande. Risultato: un caso editoriale forse senza precedenti, dato l'argomento, centinaia di migliaia di copie vendute in tutto il mondo e la richiesta pressante di una seconda puntata da parte di migliaia lettori.

Si tratta de 'Il dilemma dell'onnivoro', il libro culto dedicato all'alimentazione, in uscita in Italia con Adelphi il 4 giugno, scritto da Michael Pollan, pluripremiato giornalista collaboratore del 'New York Times', docente di Giornalismo scientifico e ambientale all'Università di Berkeley, che ha evidentemente toccato un nervo più che scoperto, e cioè la schizofrenia che vede milioni di persone al tempo stesso sempre più pigre, malate, obese, ma anche alla ricerca nevrotica della dieta ideale, o dell'alimento che le può salvare. E lo ha fatto con l'occhio del naturalista, intraprendendo un viaggio anche fisico, non solo culturale, in quattro pasti-tipo, arrivando così a scoprire realtà sconcertanti, spesso tragicomiche; che lo hanno condotto, infine, a mettere sotto accusa tutto ciò che mangiamo. Il successo del libro manifesta lo sconcerto di noi tutti davanti a quello che lui chiama 'il dilemma dell'onnivoro': più ci arricchiamo, più mangiamo male, più ci ammaliamo. Già, ma i lettori non si sono accontentati di un'accusa, ancorché argomentata e globale. E hanno chiesto a gran voce la soluzione del dilemma che, nelle settimane scorse, Pollan ha pubblicato col titolo 'In Defense of Food - an Eater Manifesto', e che è già tra i dieci libri più venduti negli Stati Uniti. Qual è la soluzione? Glielo abbiamo chiesto.

Michael Pollan, cominciamo dal dilemma: che cosa c'è di così strano nelle merci in vendita al supermercato?
"Nulla, all'apparenza, anzi. Se osserviamo l'immensa biodiversità presente in quell'ambiente così perfetto, dove gli odori sono banditi, le merci hanno un aspetto invitante e fresco, non possiamo che pensare, soddisfatti, ai passi in avanti fatti negli ultimi decenni. Tuttavia, se cerchiamo di conoscere meglio ciò che viene offerto, la situazione cambia radicalmente. Per capire quanto, basta leggere le etichette, con il loro gergo per iniziati e le interminabili liste di sostanze chimiche anche nei cibi più semplici, e con l'indicazione della provenienza, che spesso rimanda a produzioni situate a migliaia di chilometri. Per questo ho deciso di comprendere davvero che cosa mangiamo, e mi sono convinto che, per farlo, non ci fosse che una strada: quella di vivere in prima persona i processi che portano a quattro tipi di pasti, il fast food, la catena biologica industriale, quella integrata e quella dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori".

E cosa l'ha più impressionata?
"Ad esempio la pervasività del mais, che ha soppiantato molti tipi di colture e che domina ormai ogni aspetto della catena alimentare industriale, compresa la nutrizione dei bovini, che non hanno un organismo adatto a digerirlo".

Da cosa dipende questo strabiliante successo? Che conseguenze ha?
"Ogni supermercato americano offre all'incira 45 mila prodotti: oltre un quarto di essi, compresi molti non alimentari, contiene mais in tutte le sue forme. Questa dipendenza dal mais è il risultato di politiche di incentivi portate avanti fino dagli anni Cinquanta, che hanno spinto i contadini e allevatori a coltivarne e a utilizzarne sempre di più. Ma tutto ciò ha un prezzo: ho vissuto in una delle grandi fattorie dove si produce solo mais e ho scoperto che il nonno dell'attuale proprietario riusciva a sfamare la sua famiglia e altri 12 compatrioti grazie alla diversità di colture e allevamenti. Il nipote oggi mantiene 129 americani, un indubbio vantaggio, ma non produce nulla di commestibile per sé (neppure il mais, che è di una varietà non utilizzabile direttamente), deve fare i conti con un terreno sterile, inquinato dai fertilizzanti e pesticidi".

Meglio i cibi biologici....
"Sicuramente gli alimenti biologici hanno un contenuto di inquinanti più basso, e devastano in misura nettamente minore il territorio. Tuttavia l'industrializzazione delle produzioni bio le sta portando rapidamente nel solco di tutte le altre: in alcune delle grandi aziende del settore ho visto immense monocolture, allevamenti di bovini e ovini che di biologico hanno solo il cibo di cui si nutrono, processi di confezionamento e conservazione che si avvalgono di sostanze tutt'altro che naturali e, soprattutto, il trasporto a grandi distanze. Tutto ciò rende questi cibi talvolta più dannosi per l'ambiente rispetto a quelli tradizionali, e non molto più salutari di quelli industriali. Al consumatore spesso resta un costo finale più elevato e pochissima chiarezza sulla vera natura dell'alimento".

Il modello migliore sembra quello delle fattorie nelle quali c'è una varietà di coltivazioni e di allevamenti che costituisce un microcosmo equilibrato che non ha bisogno della chimica. Un modello difficile da espandere?
"No. Anzi, si sta diffondendo sempre di più. Certo, non credo che potrà mai rimpiazzare in toto la produzione industriale, perché richiede molto impegno, non può assicurare la quantità di cibo di cui abbiamo bisogno e perché i contadini sono ormai troppo abituati a servirsi della chimica. Tuttavia è possibile che questo approccio modifichi profondamente il nostro rapporto con il cibo, come del resto sta avvenendo in Italia grazie al movimento dello Slow Food, che reputo uno dei più importanti tentativi al mondo di salvaguardare la cultura dell'alimentazione ancora prima che la qualità del cibo. Dovrebbero essere introdotte opportune modifiche normative, cioè leggi e accordi che incentivino questo tipo di agroalimentare a scapito di quello industriale (e non il contrario, come accade oggi), e che promuovano la distribuzione locale attraverso i farmer market e i punti vendita gestiti direttamente dai contadini. Solo comprendendo e valorizzando quanto si mangia ci si può nutrire in modo consapevole e sano".

La consapevolezza di ciò che mangiamo le sta a cuore. E la carne?
"Credo che se si mangia carne sarebbe meglio, almeno una volta nella vita, partecipare alle fasi finali della produzione. È l'unico strumento efficace per comprendere fino in fondo il sacrificio degli animali, sprecare di meno, supportare i metodi di allevamento e uccisione più sostenibili e diventare consapevoli del fatto che attualmente mangiamo davvero troppa carne, anche perché i metodi industriali l'hanno resa accessibile in grandi quantità a prezzi di saldo".

Crede che dipenda da questo l'epidemia di obesità, in America e nel mondo?
>"Gli scienziati stanno ancora speculando sulle cause dell'obesità, del diabete e delle malattie collegate alla dieta occidentale; alcuni chiamano in causa i troppi grassi, altri i troppi zuccheri, altri ancora nuovi alimenti come l'onnipresente sciroppo di glucosio (derivato dal mais) e così via. Si ostinano a percorrere la strada del nutrizionismo, cioè tentano di scindere la dieta in una somma di elementi più semplici, per poi rimontarla a piacimento fino a eliminare i colpevoli e ottenere quella ideale. Ma questo oscura una verità molto più semplice: è tutta la nostra alimentazione a costituire il problema. Per questo la cosa migliore che possiamo fare per la nostra salute (ma anche per l'ambiente e per tutti gli altri abitanti del pianeta) è abbandonare questo tipo di alimentazione folle e tornare a consumare cibi più tradizionali, in quantità minori, ridurre gli alimenti lavorati industrialmente, quelli ad alto contenuto di oli e farine processati e quelli che contengono qualunque cosa che non siano vegetali freschi e farine integrali".

E lei, come ha modificato la sua dieta?
"Evito la carne industriale e acquisto la poca carne che consumo esclusivamente dai produttori locali che allevano il bestiame all'aria aperta nutrendolo con una dieta adeguata (nel caso del manzo erba, e non mais). Nei supermercati compro il minimo indispensabile, perché cerco di acquistare tutto ciò che mi occorre nei farmer market, e coltivo nel mio piccolo giardino alcuni ortaggi. Tuttavia non voglio essere un purista: cerco di non esasperare chi mi sta vicino, e molto raramente rifiuto un alimento che mi viene offerto da amici. Sono convinto che avere un comportamento corretto anche una sola volta alla settimana possa già contribuire molto a costruire una catena alimentare diversa. Anche perché, come dimostra lo Slow Food, mangiare è molto più che alimentare il corpo: è un'attività al cuore stesso della cultura umana e chiama in causa il piacere, l'identità di una comunità".

In conclusione: come dovremmo mangiare?
"Bisogna mangiare alimenti che non abbiano subito trasformazioni tali da diventare irriconoscibili, ed evitare tutto ciò che contiene ingredienti oscuri e troppo numerosi. Mangiare meno ma meglio è l'unica soluzione per smettere di essere un popolo con il codice a barre e per guarire dal disturbo del comportamento alimentare globale che ci affligge".
 

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