Le influenze sociali, le norme comportamentali e l’immagine che ciascuno ha di sé stessi, possono determinare alcune condizioni morbose quali ad esempio l’obesità. Si definisce “contagio sociale”.
L’obesità è malattia potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni, è causa di disagio sociale e spesso, tra bambini e adolescenti, favorisce episodi di bullismo, che più volte le cronache hanno riportato. Eppure, le Istituzioni, sino ad oggi, hanno guardato altrove. Nei fatti, l’obesità rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica a livello mondiale sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento non solo nei Paesi occidentali, ma anche in quelli a basso-medio reddito, sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori.
Si stima che il 44% dei casi di diabete tipo 2, il 23% dei casi di cardiopatia ischemica e fino al 41% di alcuni tumori sono attribuibili all’obesità/sovrappeso. In totale, sovrappeso e obesità rappresentano il quinto più importante fattore di rischio per mortalità globale e i decessi attribuibili all’obesità sono almeno 2,8 milioni/anno nel mondo.
In Europa la prevalenza di obesità è triplicata in molti Paesi rispetto agli anni ’80 e continua a crescere ad un ritmo allarmante, soprattutto fra i bambini. In base a stime recenti dell’OMS, in Europa un cittadino su due è sovrappeso o obeso, mentre uno su cinque è affetto da obesità. Fra i bambini di 11 anni, uno su tre risulta in sovrappeso o obeso.
Quindi, chiarire se i tassi di obesità in alcuni contesti dipendano da una forma di contagio sociale piuttosto che da un’autoselezione naturale fra simili, possibilmente legata anche alla condivisione di luoghi e abitudini, potrebbe cambiare gli approcci delle politiche sanitarie per il miglioramento dello stato di salute delle popolazioni.
A tal proposito, alcuni ricercatori californiani – in un articolo recentemente pubblicato sulla rivista JAMA Pediatrics – hanno confrontato diverse famiglie di militari assegnate a diverse sedi territoriali di residenza non prevedibili, pertanto senza alcuna influenza nella scelta da parte dei soggetti, per studiare la relazione tra i relativi tassi di obesità locale e lo sviluppo di sovrappeso e obesità nei genitori e nei ragazzi.
Attingendo i dati da uno studio epidemiologico condotto su 38 insediamenti statunitensi militari, includendo 1.519 famiglie, di cui 1.314 adulti e 1.111 adolescenti, sono stati registrati i dati antropometrici e l’indice di massa corporea (IMC), relativi a un anno di osservazione.
Ne è risultato che le famiglie traferite in zone con un maggiore tasso di obesità hanno un IMC mediamente più elevato e un maggiore tasso di sovrappeso-obesità. Per esempio, per ogni 1% in più del tasso di obesità territoriale si è osservato: un punteggio di 0,08 in più sul dato dell’IMC e un 5% in più di obesità in media nei genitori adulti; un 4% in più sul tasso di sovrappeso-obesità nei figli, bambini e adolescenti.
La correlazione fra il tasso di obesità territoriale, i valori di IMC e la prevalenza di sovrappeso-obesità è stata più forte per periodi di insediamento più lunghi (>24 mesi) per i ragazzi, e per l’intera famiglia è stata maggiore per coloro che vivevano fuori sede dell’insediamento piuttosto che all’interno. “L’osservazione eseguita su tali popolazioni, assegnate a territori in maniera casuale, escluderebbe le ipotesi di autoselezione, così come l’analisi sull’influenza della possibile condivisione di determinati ambienti e spazi ha escluso anche ciò come possibile fattore confondente sui risultati”, commenta l’Associazione italiana medici diabetologi (AMD) sul suo sito dove riporta lo studio pediatrico americano.
In conclusione, secondo gli autori della ricerca, vivere in territori con maggiore tasso di obesità (vedi Campania, ndr) può determinare un maggiore rischio di sovrappeso-obesità. Vi è da considerare, però, un grosso limite nello studio: e cioè che la gran parte dei dati venivano auto-riferiti dai soggetti osservati. Quindi, strada aperta ad un nuovo studio con soggetti selezionati, analizzati nelle storie cliniche e sottoposti a questionari ad hoc… Dunque, l’obesità sarebbe contagiosa al pari di un virus, di un batterio? Brillante analogia, che necessita altresì di ulteriori osservazioni e dati più consolidati, ma che sembra avere solide basi se si parla di contagio culturale, di contagio sociale.
Resta il fatto che, a livello mondiale, l’obesità è una malattia potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni, è causa di disagio sociale e spesso, tra bambini e adolescenti, favorisce episodi di bullismo, che più volte le cronache hanno riportato. Eppure, le istituzioni, sino ad oggi, hanno guardato altrove. L’obesità rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento non solo nei Paesi occidentali ma anche in quelli a basso-medio reddito sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori.
Ma attenzione, l’obesità è una malattia e non è colpa di chi ne soffre essere obeso. Assegnare a un paziente la colpa della sua malattia è alibi medico, giustificazione sociale, riflesso tanto ingiusto quanto antico (fu la prima reazione all’epidemia di Aids, ricordate? E prima ancora alla lebbra, alla tubercolosi... fino al cancro). Quindi non è etico colpevolizzare il malato di fronte all'impotenza terapeutica e ancora meno etico è farne stigma. L’obesità è la più visibile fra le malattie. Letteralmente si scorge la malattia prima ancora di distinguere i tratti del paziente. E la malattia viene attribuita univocamente ad un comportamento: il consumo eccessivo di cibo. Sbagliamo a colpevolizzare la persona obesa. Dirle “sei grasso perché scegli di mangiare tanto” è eticamente scorretto e scientificamente sbagliato: il bilancio energetico di una persona è al centro di tantissimi fattori, in buona parte sconosciuti, le cui interazioni sono complicatissime. Sempre per stare in tema, poi, chi è grasso paga. Questa deresponsabilizzazione della società è ben esemplificata dal fatto che l’obesità, pur essendo considerata una malattia, non ha un codice di esenzione ticket, la persona deve quindi partecipare ai costi delle cure necessarie per prevenire e gestire l’obesità. E non sono cure da poco, visto che l’approccio corretto all’obesità richiede un team multidisciplinare simile a quello previsto per il diabete ma ancora più allargato. Gestire bene l’obesità permetterebbe di ridurre costi socio-sanitari enormi, si parla del 2% del Pil, provocati dalle sue conseguenze.
E quali responsabilità hanno, invece, la società e la politica? Molte. Per esempio, lasciare soli i cittadini-consumatori contro gli spacciatori di stimoli. Le pubblicità senza etica. I cittadini e chi tende all'obesità devono accettare le conseguenze di un approccio che consente alle aziende alimentari di usare ogni trucco per convincere le persone ad alimentarsi più del necessario e a preferire sostanze con enormi quantità di grassi, sali e zuccheri aggiunti: sostanze che attivano i centri del piacere in un modo simile a quel che avviene per le droghe. Creano dipendenza. Cibo-dipendenza. E conseguente possibile sovrappeso o obesità.
Stili di vita errati tra i giovani.
Nel 2016, il 19,8% della popolazione di 14 anni e più dichiara di essere fumatore (circa 10 milioni e 400 mila persone), il 22,6% di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai fumato.
È pari al 45,9% la popolazione di 18 anni e più in eccesso di peso (35,5% in sovrappeso, 10,4% obeso), mentre il 51% è in condizione di normopeso e il 3,1% è sottopeso.
Il 64,7% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: il 51,7% beve vino, il 47,8% consuma birra e il 43,2% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori.
23 milioni 85 mila persone (il 39,2% della popolazione di 3 anni e più) dichiarano di non praticare sport né attività fisica nel tempo libero. Elevate le differenze di genere: è sedentario il 43,4% delle donne contro il 34,8% degli uomini.
La correlazione emerge per la prima volta da uno studio condotto presso l'Università della California, a Riverside, e pubblicato sul Journal of Clinical Investigation Insight
I ricercatori del Labanof dell’Università Statale di Milano hanno esaminato due scheletri di donne e dei loro feti, con deformità attribuibili all'osteomalacia, una patologia legata alla fragilità ossea e associata alla carenza di vitamina D
Lo rivela uno studio effettuato su 1771 studenti di 48 scuole elementari pubbliche di Madrid
La pratica potrebbe salvare 820.000 vite l'anno
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