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Il paziente ad alto rischio cardiovascolare - Intervista al Dr. Perna

Cardiologia Redazione DottNet | 17/12/2019 11:58

Il Dr. Gian Piero Perna, cardiologo presso AOU Ospedali Riuniti Ancona e direttore di Cardiologia, UTIC e delle Scienze Cardiovascolari, ci espone punti essenziali della pratica clinica cardiologica

Dottor Perna, chi è il paziente ad alto rischio cardiovascolare? 

Si definisce “ad alto rischio cardiovascolare” il paziente che ha una alta probabilità di avere eventi cardiovascolari fatali o non fatali (infarto miocardico, angina instabile, ictus, ischemia degli arti inferiori, necessità di rivascolarizzazione miocardica con tecniche chirurgiche o interventistiche). Definire il rischio di questi eventi è un punto fondamentale nella pratica clinica, perché ci aiuta a capire quali pazienti debbano essere trattati dal punto di vista farmacologico, con quali modalità e con quale intensità.

Questa “stratificazione del rischio” può essere condotta con criteri clinici o con dei sistemi di punteggio (chiamati score di rischio) in cui vengono inseriti quelli che sono i principali “fattori di rischio” e i principali “marker di rischio” (1). I soggetti ad alto rischio cardiovascolare che non hanno mai avuto eventi, sono pazienti in cui confluiscono più fattori di rischio “convenzionali “, quali: fumo, ipertensione, dislipidemia, sovrappeso corporeo o diabete (1).

La presenza di una malattia cardiovascolare nota (un pregresso infarto, un pregresso ictus, una malattia coronarica stabile oppure un’arteriopatia periferica) indica di per sé un soggetto ad alto rischio, con una probabilità di eventi a 10 anni superiore al 20%. Tra questi pazienti, quelli che hanno già un’evidenza di malattia o che hanno superato un evento acuto (infarto, rivascolarizzazione con angioplastica coronarica o by-pass aortocoronarico) il rischio di ulteriori eventi è variabile (1).

Alcuni pazienti possono infatti avere un rischio molto più alto: i diabetici, quelli che continuano a fumare o non curano adeguatamente l’ipertensione arteriosa, i pazienti con un filtrato glomerulare renale < 60 ml/min, quelli che hanno anche una malattia vascolare periferica o cerebrale. La confluenza di più fattori o marker di rischio identifica soggetti in cui la probabilità di eventi è altissima se non vengono adeguatamente trattati (2,3).

È perciò importante che, soprattutto in prevenzione secondaria, questi soggetti vengano identificati e trattati celermente. Gli score di rischio più efficaci in prevenzione secondaria sono: il Timi Risk Score 2P e il REACH-score. Peraltro, in un paziente che ha avuto un evento cardiaco, è sufficiente sapere poche cose per definire un rischio più alto, tra le quali:

  1. Se è diabetico
  2. Se il filtrato glomerulare è < 60ml/min
  3. Se ha anche una malattia vascolare poli distrettuale (periferica e/o cerebrovascolare oltre che coronarica).

L’uso di farmaci in grado di modificare la progressione della malattia (farmaci ipolipemizzanti e farmaci ad azione antitrombotica) risultano essere molto efficaci in questo tipo di paziente (2).

Secondo lei, quali fra questi fattori di rischio cardiovascolare sono i più diffusi nella pratica clinica?

Il diabete è sicuramente il fattore di rischio più comune. Tra i pazienti con malattia cardiovascolare nota la frequenza di diabete supera ormai il 35%, ma la frequenza di pazienti che continuano a fumare o che non curano adeguatamente la loro ipertensione e la loro ipercolesterolemia pur avendo una malattia cardiovascolare, risulta ancora più impressionante. Degno di importanza è che il 24,7% dei pazienti con una malattia coronarica nota ha anche un altro distretto vascolare interessato, tutto ciò senza nemmeno saperlo. È perciò essenziale che la stratificazione del rischio venga adeguatamente condotta anche nei pazienti che hanno già avuto eventi. In passato ci si è molto concentrati sulla prevenzione primaria, ma dalla letteratura più recente e dall’esperienza clinica emerge chiaramente che occorre essere ancor più concentrati nel trattare in maniera ottimale i pazienti in prevenzione secondaria.  Lo Studio COMPASS, in particolare, ha dimostrato che l’associazione tra ASA e rivaroxaban a dose vascolare (2,5 mg x 2) evita 23 eventi ogni 1000 pazienti trattati, nel totale della popolazione (NNT), per 30 mesi. Ma, tale numero sale a 31 se si considerano i pazienti diabetici ed a 60 se si considerano i pazienti a rischio più alto come quelli con malattia poli distrettuale. Risultati analoghi sono stati ottenuti in altri studi condotti con trattamenti ipolipemizzanti intensivi. Per questa ragione le Linee Guida presentate all’ ESC di Parigi per la prevenzione cardiovascolare e per le sindromi coronariche croniche, hanno dimostrato come con la valutazione clinica ci sia la possibilità di identificare i pazienti più a rischio e di concentrare su di loro il nostro impegno terapeutico (4).

In conclusione i pazienti con malattia cardiovascolare hanno oggi molte opportunità di trattamento farmacologico sicure ed efficaci. É essenziale, quindi, realizzare una "alleanza terapeutica" tra lo specialista e il paziente per ottenere, quindi, i migliori risultati, che si raggiungono quando il paziente è motivato a correggere gli stili di vita inadeguati e a seguire  con continuità i trattamenti farmacologici proposti.

Bibliografia

  1. Fox KAA et al., The myth of "stable" coronary artery disease, Nat Rev Cardiol, 2019 Jul 29. doi: 10.1038/s41569-019-0233-y
  2. Linee Guida della Società Europea di Cardiologia 2019
  3. Anand SS et al., J Am Coll Cardiol. 2019;73(25):3271-3280
  4. Eikelboom J.W., Connolly S.J., Bosch J. et al. Rivaroxaban with or without aspirin in stable cardiovascular disease. N Engl J Med. 2017;377(14):1319–30

PP-XAR-IT-0197-1

Depositato presso AIFA in data: 09/12/2019

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