Secondo gli oncologi riuniti in congresso negli Usa c'è un eccesso di esami anche in Italia
Dieci anni di terapia ormonale riducono il rischio di ricorrenza del cancro al seno del 34%, senza compromettere la qualità di vita. E' quanto emerge da uno studio del Canadian cancer trials Group presentato al Congresso della Società americana di oncologia clinica Asco, il più importante appuntamento mondiale del settore, in corso a Chicago. Lo studio, di fase III, ha infatti evidenziato che le donne in post-menopausa con cancro al seno traggono beneficio dall'estendere la terapia ormonale da 5 a 10 anni: le donne che avevano prolungato la terapia hanno infatti registrato un rischio di ricorrenza del tumore più basso del 34% rispetto al campione di donne trattato con placebo.
Dati tanto importanti da meritarsi la presentazione in sessione plenaria all'Asco, dove ad essere illustrati sono solo i 4 studi con l'impatto potenziale più alto per la cura dei pazienti, su un totale di oltre 5mila lavori scientifici presentati al Congresso. ''Le donne con cancro al seno di tipo Er positivo in fase iniziale vanno incontro a un rischio indefinito di ricaduta - sottolinea il primo autore della ricerca Paul Goss, professore di Medicina all'Harvard Medical School -.
Lo studio ha considerato un campione di 1918 donne in post-menopausa e già trattate per 5 anni con terapia ormonale: a 5 anni di follow up, il 95% delle donne che hanno continuato ad essere trattate con terapia ormonale e il 91% di quelle trattate con placebo erano libere da cancro al seno. Si tratta, affermano gli oncologi Usa, di indicazioni fondamentali, considerando che nel 2012 erano oltre 6 mln le donne nel mondo sopravvissute almeno 5 anni dopo la diagnosi di tumore al seno: la maggioranza ha avuto un tumore Er positivo e può dunque essere interessata a questi risultati.
Lo studio presentato all'Asco, commenta il direttore della Scuola di specializzazione in Oncologia medica all'Università di Padova Pierfranco Conte, ''conferma che la durata del trattamento ormonale è importante. Tuttavia, ciò non significa che tutte le donne debbano fare una terapia ormonale decennale''. Secondo Conte, infatti, ''tale indicazione va data solo a quelle donne ritenute ad alto rischio di ritorno della malattia sulla base della valutazione di parametri biologici''. Quanto alle donne in pre-menopausa, invece, ''se hanno avuto un cancro al seno ad alto rischio - afferma - si può arrivare anche ad indurre una menopausa precoce per poter utilizzare tali farmaci''. Ad ogni modo, conclude l'esperto, ''non esiste la terapia migliore' per tutti i pazienti, perché la valutazione finale resta comunque al medico e va fatta sulla base del rapporto rischi-benefici''
Sono moltissime le donne che, a fronte di una diagnosi di cancro al seno allo stadio iniziale, vengono sottoposte a test avanzati di diagnostica per immagini - come Pet, scintigrafie e tomografie computerizzate - che risultano invece ''inutili dal punto di vista medico'' e ''potenzialmente pericolosi''. A denunciare l'eccesso di esami radiologici immotivati ed a rischio sono gli oncologi Usa, con uno studio presentato al Congresso dell'American Society of clinical oncology (Asco), il più importante appuntamento del settore a livello mondiale. Ma il fenomeno non è solo statunitense, dal momento che anche in Italia si registra un 'sovrautilizzo' di questo tipo di esami.
Secondo uno studio dell'Università del Michigan, fino al 60% delle tomografie, scintigrafie e pet effettuate su oltre 29.170 donne americane con un cancro al seno in fase iniziale, tra il 2008 e il 2014, ''non era giustificato'' dal punto di vista medico. Di queste, 5.954 (20%) aveva effettuato almeno un test diagnostico per immagini entro 90 giorni dalla diagnosi. Anche le linee guida nazionali Usa sconsigliano questo tipo di esami per verificare la presenza di metastasi in donne con cancro al seno iniziale, a meno che vi siano altri sintomi particolari.
In questa categoria di pazienti, spiega Norah Lynn Henry, primo autore dello studio, ''la possibilità di identificare metastasi in altre parti del corpo attraverso un test per immagini è pari all'1%. E' quindi allarmante che così tante donne siano sottoposte ad esami radiologici che hanno scarsi benefici e possono invece portare ad un'eccessiva esposizione a radiazioni, procedure invasive, ansia, oltre che rappresentare un peso economico''. Il punto, sottolinea l'esperta, è che ''la diagnostica per immagini è oggi estremamente sensibile, tanto da cogliere anche piccolissime anomalie, la maggioranza delle quali non diventerà mai clinicamente importante o preoccupante''.
E in Italia la situazione è analoga: ''Anche nel nostro Paese - afferma Francesco Cognetti, direttore del Dipartimento di Oncologia Medica dell'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma - c'è un eccesso di tali esami. Nonostante le raccomandazioni sulla loro scarsa utilità nelle fasi iniziali del cancro al seno, non c'è un cambiamento della pratica clinica e questo pure a causa di un atteggiamento dilagante di medicina difensiva''. Un fenomeno ''da controllare - aggiunge - poiché il rischio è impiegare risorse economiche inutilmente, essendo poi costretti a tagliare invece in altri settori decisivi come quello dei nuovi farmaci''.
Le linee guida nazionali e internazionali in materia, sottolinea anche Pierfranco Conte, direttore della Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica all'Università di Padova, ''affermano che non ci sono prove che tali esami intensivi siano di vantaggio per questo tipo di pazienti''. Tuttavia, rileva, ''è pur vero che tali linee guida si basano su studi che risalgono ad oltre 30 anni fa. Credo dunque che andrebbero condotti nuovi studi, anche a fronte degli avanzamenti della diagnostica per immagini, poiché le evidenze scientifiche attuali non sono sufficienti per poter dare una risposta univoca''. Ad ogni modo, conclude l'oncologo, ''ogni caso va considerato singolarmente ed ogni paziente va valutata, ed indirizzata ad eventuali esami, sulla base del suo profilo di rischio e di ripresa della malattia''.
Fonte: ansa
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