Un errore di valutazione clinica aveva impedito la diagnosi precoce della malattia
La diagnosi tardiva di una malattia inguaribile puo' rappresentare una lesione del diritto all' autodeterminazione in merito alle scelte per affrontare l' ultima fase della vita. Per questo, i familiari di una persona deceduta in tale situazione possono chiedere, e ottenere, un risarcimento danni. La terza sezione civile della Cassazione, con una sentenza depositata oggi, ha accolto per questo il ricorso della famiglia di una signora che era morta per un tumore nel 1997: inizialmente, nonostante la donna fosse stata sottoposta a un intervento chirurgico, vi era stato un errore di valutazione clinica, che aveva impedito la diagnosi precoce della malattia. Per questo, i familiari avevano citato in giudizio la Asl di Lecce, ma i giudici del merito avevano rigettato la loro richiesta di risarcimento.
La Suprema Corte, con una sentenza depositata oggi, ha invece ritenuto fondato il loro ricorso e disposto un nuovo processo sulla vicenda: il ritardo diagnostico "ha determinato" la "perdita diretta di un bene reale", correlato del "diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto", si legge nella sentenza, nella quale si spiega che nel caso in esame "e' la lesione di tale liberta'", ossia "quella di scegliere come affrontare l' ultimo tratto del proprio percorso di vita", che e' "rimasta priva di ogni considerazione", mentre si tratta di una "situazione meritevole di tutela al di la' di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignita', degli eventuali possibili contenuti di tale scelta".
I giudici di piazza Cavour mettono quindi in evidenza come lo stesso legislatore sia intervenuto a dare "rilievo e tutela" a questa liberta' dell' individuo, come, ad esempio, con la legge sulle cure palliative. "L' ordinamento giuridico - si osserva nella sentenza - non affatto e' indifferente all' esigenza dell' essere umano di 'entrare nella morte ad occhi aperti'" e "l' autodeterminazione del soggetto chiamato alla 'piu' intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual e' il confronto con la realta' della fine' non e' priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e cio' qualunque siano le modalita' della sua esplicazione: non solo - conclude la Cassazione - il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non piu' reversibili, ovvero, all' opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione".
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