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Nefropatia membranosa: cure italiane approvate negli Usa

Nefrologia Redazione DottNet | 31/08/2019 17:15

I ricercatori e i clinici bergamaschi hanno documentato per primi nel 2002 che il rituximab attaccava un tipo particolare di cellule linfatiche responsabili del danno renale

Uno studio clinico, condotto negli Stati Uniti e pubblicato sulla rivista 'New England Journal of Medicine', conferma l' efficacia di una terapia messa a punto quasi vent' anni fa dai ricercatori dell' Istituto Mario Negri di Bergamo e dai clinici della Nefrologia degli allora Ospedali Riuniti. La malattia oggetto dello studio si chiama nefropatia membranosa: è una forma di danno renale, piuttosto rara, caratterizzata dalla perdita di grandi quantità di proteine nelle urine (che si definisce proteinuria).

Un certo numero di pazienti guarisce spontaneamente da questa malattia, ma la maggior parte rimane in questa condizione (che si manifesta in genere con importante gonfiore delle caviglie, e alterazione di diversi esami del sangue come colesterolo e trigliceridi alti, proteinemia bassa) per molto tempo. Alla lunga la malattia compromette la funzione del rene fino a che non si rende necessaria la dialisi o il trapianto. Verso la metà degli anni '80 è stata proposta una terapia per questa malattia, con qualche successo, ma a prezzo di importanti effetti indesiderati, anche gravi. La terapia consisteva nella combinazione di cortisone ad alte dosi e di un immunosoppressore. Successivamente è stato proposto l' impiego di un altro immunosoppressore, la ciclosporina, farmaco normalmente usato per prevenire il rigetto.

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Verso la metà degli anni '80 è stata proposta una terapia per questa malattia, con qualche successo, ma a prezzo di importanti effetti indesiderati, anche gravi. La terapia consisteva nella combinazione di cortisone ad alte dosi e di un immunosoppressore. Successivamente è stato proposto l' impiego di un altro immunosoppressore, la ciclosporina, farmaco normalmente usato per prevenire il rigetto. Con il tempo, i meccanismi che sono alla base della malattia sono stati chiariti. È stato possibile proporre interventi terapeutici per così dire più mirati. I ricercatori e i clinici bergamaschi hanno documentato per primi nel 2002 che il rituximab, un cosiddetto monoclonale che attaccava un tipo particolare di cellule linfatiche responsabili - almeno in parte - del danno renale, era in grado di guarire totalmente o parzialmente la patologia, con un carico di effetti indesiderati nettamente inferiore a quello della terapia usuale.

  "E' uno studio molto importante - afferma Giuseppe Remuzzi, direttore dell' Istituto Mario Negri, che insieme a Piero Ruggenenti, direttore della Unità operativa di Nefrologia e dialisi dell' Asst Giovanni XXIII di Bergamo, firma un commento allo studio, sullo stesso numero del 'Nejm' - perché mette a disposizione di tutti i pazienti un trattamento efficace e meno pericoloso di quelli usati fino ad oggi. È anche la conferma che la nostra intuizione di vent' anni fa era giusta: è un peccato che siano passati vent' anni prima che questa terapia, che è più efficace e sicura di quelle precedenti, potesse essere messa a disposizione di tanti ammalati nel mondo". Dunque tutto risolto? "Purtroppo no - spiega Ruggenenti - c' è sempre un 25-30% di pazienti che non guarisce con il rituximab. Però stiamo già andando oltre: abbiamo già studiato un farmaco simile ma potenzialmente più efficace, l' ofatumumab. Altrifarmaci con meccanismo d' azione diverso che agiscono su altre cellule sono allo studio, e infine c' è da esplorare la possibilità di 'ingegnerizzare' le cellule linfatiche".

fonte: 'New England Journal of Medicine'

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