Le industrie farmaceutiche hanno una brand reputation inferiore alle banche.
Le industrie farmaceutiche hanno una brand reputation inferiore alle banche. Nonostante l’impegno, delle banche intendo, di avere un pessimo rapporto con il cliente.
Quando parlo di relazione con il cliente, la conoscenza profonda, l’illimitata disponibilità di informazioni, la tecnologia come strumento per migliorare il rapporto, la relazione fiduciaria di lungo termine, la gestione del cliente in termini di presa in carico dei suoi bisogni, non è la banca che ci viene in mente. Non è un caso, infatti, che le banche tradizionali saranno destinate a chiudere bottega – e non me ne duole – letteralmente.
L’ultimo regalo che ho ricevuto da una banca, ed era veramente tanti anni fa, è stato “Il presepe popolare nella Sicilia orientale” un grosso volume che ancora conservo a imperitura memoria della non-relazione. Ho pensato: “sai di me più cose di quanto io pensi di sapere di me stesso e mi regali (!) quello che probabilmente è veramente agli antipodi dei miei interessi?” Forse avrei apprezzato di più persino la raccolta degli ultimi bilanci della banca, in un volume in brossura. Non è un caso che la pessima relazione prosegua ancora oggi: l’app della mia banca mi fa la proposta di rateizzare una piccola spesa. Ci provo, per sperimentare, e scopro che devo rispondere ad un questionario su cose che la banca già conosce di me, come residenza e durata del mio incarico di lavoro. Si tratta di tre rate da 170 euro ma ci voglio provare lo stesso. Le domande continuano e alla fine, estenuato, arrivo alla richiesta del Cud. Abbandono, consapevole che negli ultimi dieci anni ho fatto accreditare il mio stipendio su quel conto. Qualche giorno prima Amazon, all’atto dell’acquisto di un frullatore, autonomamente mi ha chiesto se volessi dividere in 5 rate senza interessi né spese, ho cliccato di sì: pratica approvata. Non ho conto su Amazon, non ho carte di credito con loro, non mi accreditano lo stipendio da un decennio sul loro account: sono solo utente prime. Quando Amazon aprirà una banca, e non se lo farà, io sarò tra i primi clienti.
A parte l’aneddotica narrazione, secondo me questo è il segno di una mancata valorizzazione di una relazione che prima era personale e già funzionava abbastanza male poi si è evoluta basandosi sul CRM e funziona ancora peggio. Il rapporto relazionale ed il tutto a tutti sono l’opposto: se il funzionario mi conosce, e sa chi sono, perché allora produrre un solo volume uguale per tutti sul presepe popolare nella Sicilia orientale e non, che so, domandare loro quali sono gli interessi dei clienti primari e così cercare di personalizzare un rapporto? Perché, visto che sai tutto sul cliente, fare one size fit all per la strenna natalizia se puoi valorizzare la relazione? Perché, oggi che hai tutte le informazioni, che il funzionario non c’è più e il rapporto è solo grazie all’app, non massimizzi i dati e fai proposte personalizzate? E se fosse così anche per la rete di informazione scientifica? Rispetto a ieri la relazione era affidata solo agli informatori che non erano attori della relazione ma latori di messaggi, ora è mediata dalle piattaforme CRM: è veramente un passo avanti?
Lunga premessa per contestualizzare una serie di passaggi del marketing nel farmaceutico. Il marketing di relazione non è nuovo e anzi possiamo dire che nel farmaceutico è stato ipotizzato prima di ogni altro, ma mi duole farvi rilevare che non è stato usato in modo bilaterale, pur con la possibilità di farlo, e con le nuove piattaforme CRM spesso non ne osserviamo un miglioramento.
Il marketing relazionale, quello costruito sulla capacità di comprendere i bisogni del nostro cliente e costruire un rapporto duraturo con lui basato su soddisfazioni reciproche, è stato possibile nel farmaceutico grazie alla presenza della figura dell’informatore come attuatore finale della politica aziendale e osservatore e latore degli interessi del medico in azienda. Quindi il vero ultimo anello che riceve e trasmette, che ascolta e parla con il medico, che può ben ricordare quanto si è detto e darne seguito, che ha il volto dell’azienda e trasforma un’indistinta fiducia nel brand in relazione umana è sempre esistito. Non so se è calzante ma quello della rete di informazione è proprio il migliore caso di long lasting relationship: quella fidelizzazione che dovrebbe consentire all’azienda di costruire un rapporto di comprensione reciproca e laica degli interessi e insieme massimizzare i successi terapeutici. L’uomo che raccoglie i dati e li conserva sul suo calepino(!), sul taccuino personale, estende il rapporto a dimensioni che vanno al di là di quelle meramente commerciali, tra professionisti che si stimano reciprocamente, riconoscono reciproche competenze, condividono gli stessi interessi pur da parti opposte. Questo è il mero passo avanti rispetto al marketing tradizionale, dove c’è la pressione ad influenzare più che comprendere, a promuovere a tutti anziché a chi interessa, a comunicare su media unidirezionali anziché bidirezionali. Abbiamo l’informatore che veramente potrebbe informare ed ascoltare, perché usarlo come clava e non come canale bidirezionale?
Quando oggi parliamo di paziente al centro, forse abbiamo dimenticato che prima avremmo dovuto avere il medico al centro e che non abbiamo saputo sfruttare appieno la grandissima capacità di professionisti presenti ogni giorno dai medici. Facciamo focus group, facciamo analisi di mercato dei bisogni dei customer, studiamo le loro reazioni ai nostri messaggi, verifichiamo l’efficacia dei nostri mezzi, analizziamo il loro percepito ma stiamo dimenticando che abbiamo sul campo chi potrebbe aiutarci a farlo per noi, aggiornandoci ogni giorno. Far passare la centralità del consumatore da falso mito da far recitare alla forza vendita a reale cambio culturale è la sfida che ci viene chiesta. La centralità del consumatore è un assioma contemporaneo, il consumatore è il sovrano ed è lui che ci paga lo stipendio, ma è molto difficile anche solo scorgerne a livello di prassi esecutiva aziendale contenuti e modalità conseguenti che facciano veramente pensare che questa sia la cultura d’impresa. Quanto è stato fatto per ascoltare i bisogni dei medici attraverso l’orecchio dell’informatore? Quanto credito ogni giorno viene dato agli informatori sul trasferimento di informazioni dal medico all’interno dell’azienda?
Devo polemicamente rilevare che, se chiedi agli informatori cosa occorre loro, diranno, a rotazione: più righelli, più campioni, più visual, più eventi e congressi. Questo purtroppo nasce da una mala-educazione: gli informatori non sono stati abituati, non è stato insegnato loro a fare un ascolto attivo, a domandare per appuntare i bisogni sul CRM; è stato insegnato loro, e molto bene, a condurre una corretta intervista, a gestire le obiezioni, ad avere una descrizione scientifica accurata e corretta delle caratteristiche del prodotto. Quindi il fatto che non sempre gli ISF siano in grado di rilevare e riportare dalla periferia al centro è certamente loro colpa ma va a demerito del processo di formazione e gestione degli stessi.
Ancora, il marketing farmaceutico – diciamocelo francamente – è nello stadio di orientamento alle vendite e gli informatori, per come sono formati e come sono guidati, ne sono gli ultimi inconsapevoli promotori.
Salvatore Ruggiero,
CEO Merqurio e Autore di:
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