Un tempo bastava una mela al giorno per guarire. Oggi si preferisce una molecola farmaceutica. Il consumo di farmaci nel nostro Paese è molto elevato, basti pensare che secondo l’ultimo rapporto Osmed solo nel 2008 sono state prescritte 924 dosi di farmaco al giorno (erano 580 nel 2000) ogni mille abitanti. Attraverso le farmacie pubbliche e private sono stati acquistati nel 2008 complessivamente 1,8 miliardi di confezioni, circa 30 per abitante.
I prodotti più utilizzati sono quelli del sistema cardiovascolare, seguono i farmaci gastrointestinali, quelli del sistema nervoso centrale, gli antimicrobici, gli antineoplastici, i dermatologici, i farmaci genito-urinari e ormoni sessuali, fino ai farmaci dell’apparato muscolo-scheletrico, che sono le categorie maggiormente a carico dei cittadini. Tutto questo vale 24,4 miliardi di euro l'anno, al 75% rimborsati dal sistema sanitario nazionale (SSN).
In pratica la spesa annuale per cure farmacologiche ammonterebbe a 410 euro per ciascun italiano.
“Ma tra tutti le centinaia di farmaci che sono stati registrati negli ultimi anni - denunciano gli esperti della Società italiana di Farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie (SIFO) - oltre la metà rappresenta un’innovazione modesta o moderata.
FARMACI POCO INNOVATIVI
“Un farmaco – spiega Laura Fabrizio, presidente della Sifo – può considerarsi innovativo quando offre al paziente benefici maggiori rispetto alle cure precedenti. Cioè quando offre al paziente qualcosa in più rispetto alle opzioni precedentemente disponibili in termini di efficacia, sicurezza e convenienza”. Il metodo utilizzato dai ricercatori per valutare il grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci deve rispondere ai seguenti tre requisiti: la gravità della malattia bersaglio, la presenza o meno di trattamenti già disponibili e l’entità del beneficio terapeutico.
“Tuttavia – continua l’esperta - si approva un farmaco quando è efficace e sicuro, ma non necessariamente quando ha dimostrato di essere migliore di una terapia già esistente, e quando i dati clinici sono suggestivi, ma non sufficienti a stabilire con certezza i benefici clinici”. Più della metà dei principi attivi inseriti in commercio, di conseguenza, risulta una semplice innovazione farmacologica o tecnologica. Un esempio sono i farmaci ‘me-too’, ovvero quelli privi di un reale vantaggio terapeutico ma che hanno una composizione quasi uguale a quella di un altro farmaco, o le formulazioni che introducono solo nuovi metodi di rilascio del principio attivo.
LO STUDIO
In uno studio condotto dall’Università di Bologna e dall’Aifa del 2006, in cui sono stati esaminati i prodotti approvati dall’Emea, attraverso la procedura centralizzata, in dieci anni (1995 – 2004), si evidenzia che su 176 agenti terapeutici considerati, solo il 28% è classificabile come innovazione terapeutica importante, cioè che offre al paziente benefici maggiori rispetto alle opzioni disponibili fino a quel momento. “Quello che serve è una reale innovazione. Se le normative regolatorie – continua l’esperta – fossero modificate in modo da rendere necessario non solo la non inferiorità ma anche la dimostrazione di un valore aggiunto allora sì ci potrebbero essere investimenti mirati a una maggiore innovazione”.
Tuttavia, negli ultimi anni, per alcune patologie sono state introdotte molecole davvero innovative. “È il caso – conclude la dottoressa Laura Fabrizio – delle molecole utili a trattare l’infezione da HIV, nel trattamento di tumori (es. rituximab, sorafenib, imatinib, lenalidomide, azacitidina), nell’artrite reumatoide e nella psoriasi (es. farmaci biologici anti-TNF e altri)”. In alcuni casi, invece, come le malattie rare o orfane, la mancanza di innovazione è dovuta principalmente alla carenza di investimenti nel campo della ricerca..
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