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Tumore della prostata: si potrà curare con tecniche di biologia molecolare

Oncologia Redazione DottNet | 20/10/2008 10:16

Un gruppo di ricercatori italiani è riuscito a scoprire il meccanismo genetico con il quale il tumore della prostata diventa aggressivo e resistente alle terapie e a comprendere come e' possibile tentare di curare la malattia con tecniche di biologia molecolare distruggendo le cellule neoplastiche.

Lo studio, coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità e coordinato da Ruggero De Maria è stato pubblicato sulla rivista inglese Nature. Secondo il presidente dell'Iss Enrico Garaci ''grazie a questa ricerca siamo molto vicini ad una terapia contro gli stadi avanzati del cancro alla prostata''. La ricerca, condotta in collaborazione con l'equipe del professor Giovanni Muto, primario di Urologia dell'Ospedale San Giovanni Bosco di Torino e con l'Istituto Oncologico del Mediterraneo di Catania, e' stata finanziata grazie ai fondi dell'accordo Italia-Usa e dall'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.
Analizzando il tessuto tumorale di 40 pazienti i ricercatori hanno compreso che l'aggressività del carcinoma prostatico è causata dalla perdita di un frammento di DNA del cromosoma 13 che contiene due piccoli geni, chiamati microRNA-15a e microRNA -16, i quali agiscono bloccando la progressione maligna del tumore.

Successivamente lo studio ha avuto come obiettivo la possibile soluzione terapeutica: con tecniche di biologia molecolare Ruggero De Maria e i suoi colleghi sono riusciti a reintrodurre nelle cellule malate i geni perduti, tecnica che ha permesso di bloccare la crescita delle cellule tumorali che vengono distrutte. ''Le implicazioni cliniche di questa ricerca sono notevoli'', ha commentato Garaci. ''La possibilità di curare tumori aggressivi della prostata tramite la somministrazione di questi piccoli micro-Rna è stata confermata in test su animali di laboratorio - ha spiegato De Maria - e con questo bagaglio di conoscenze il cancro della prostata potrà essere sconfitto''.
In Italia ogni anno vengono diagnosticati circa 44.000 nuovi casi di tumore alla prostata che sono destinati ad aumentare, considerando il progressivo invecchiamento della popolazione. Sebbene negli ultimi quindici anni il dosaggio dell'antigene prostatico specifico (PSA) abbia aumentato considerevolmente le diagnosi precoci e le possibilità di guarigione, il cancro alla prostata rappresenta ancora oggi la seconda causa di morte da tumore nell'uomo dopo il carcinoma del polmone. La straordinaria scoperta ''è rilevante anche per contribuire a selezionare i pazienti con carcinomi prostatici latenti che potrebbero non evolvere mai in una malattia conclamata e mortale''. Lo sostiene Giovanni Muto, presidente dell'associazione urologi italiani, primario di Urologia all' Ospedale San Giovanni Bosco di Torino e protagonista della scoperta, a fianco dell' Istituto Oncologico del Mediterraneo di Catania. ''I parametri attuali - ha aggiunto Muto - non ci consentono infatti di selezionare con certezza questo tipo di pazienti e pertanto anche a loro (che potrebbero evitare ogni trattamento) viene consigliata la terapia chirurgica o radioterapica con possibili effetti collaterali legati al decadimento della potenza sessuale. Negli stadi avanzati si ricorre invece alla terapia ormonale e in caso di progressione non esiste alcuna cura realmente efficace che ancora provoca la morte di oltre il 20% dei pazienti affetti da cancro alla prostata. Tutte queste terapie possono determinare effetti collaterali significativi. Questa scoperta darà un grande contributo al trattamento di questi malati''.
 

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