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Per primari e universitari la pensione è a 68 anni. Medici resta a 65

Professione Redazione DottNet | 30/07/2014 18:27

Le proteste di sindacati, associazioni e enti

Professori universitari e primari non potranno essere mandati in pensione prima dei 68 anni. La regola dei 65 resta solo per i medici. Si alza così la soglia d'età prevista per le uscite 'obbligate', la commissione Affari costituzionali della Camera è, infatti, tornata sulla modifica inserita venerdì scorso nel decreto legge di riforma della Pa, che fissava l'età per i cosiddetti 'baroni' a 65 anni.

 

Ora questo limite resterebbe solo per i medici, mentre i ricercatori sono stati equiparati al resto dei dipendenti pubblici, per cui il tetto stabilito è di 62 anni. Il governo, di fronte agli oltre mille emendamenti presentati, ha deciso, come era nelle attese, di porre la fiducia. A riscrivere la regola sul pensionamento d'ufficio è un emendamento presentato dal relatore al dl, Emanuele Fiano (Pd), che però precisa come per ogni professore comandato a riposo si debba procedere all'assunzione di almeno un nuovo docente o ricercatore. Insomma se da una parte la misura che punta a rottamare la Pa viene indebolita, aumentando di tre anni il limite per l'uscita, dall'altra viene imposto un turnover al 100%, almeno per gli istituti accademici.

 

Dalla regola restano invece esclusi i magistrati, per cui è stato anche arduo abolire il trattenimento in servizio, tanto da rendere necessaria una proroga di oltre un anno (dall'ottobre del 2014 al dicembre del 2015). Slittamento che però è saltato per gli avvocati dello stato. E ancora una novità interessa i componenti degli organi elettivi di ordini e collegi professionali: saranno fatti salvi dalla regola che esclude il conferimento di incarichi per chi è in pensione. Potrebbero invece non andare in porto le novità proposte per i presidi, per cui era avanzata l'ipotesi di rimpiazzarli con i vicepresidi laddove le graduatorie risultino esaurite. Una valanga di oltre mille emendamenti, intanto, ha spinto il governo a porre fiducia sul dl, indicata in serata dalla conferenza dei capigruppo.

 

Il limite di 68 anni per il pensionamento d'ufficio dei primari otterrà l'effetto opposto a quello voluto, con un invecchiamento del personale medico. Lo afferma Massimo Cozza, Segretario Nazionale Fp-Cgil Medici, commentando l'approvazione in commissione del Dl Madia. ''Da una nostra analisi dei dati del Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato - spiega Cozza - risultano almeno 1000 i primari che in seguito a questo emendamento potranno rimanere al lavoro fino ai 68 anni. Questo vuol dire che ad altri 1000 medici verrà negato un percorso di crescita professionale. Se poi si proietta in questo scenario la media anagrafica dei medici pubblici italiani, già oltre i 53 anni, il risultato è agli antipodi di quello promesso da Renzi e Madia. Si produrrà un paradossale invecchiamento del personale medico, senza per altro prevedere che eventuali risorse liberate con i pensionamenti d'ufficio siano utilizzate per assunzioni di giovani medici. Immaginiamo - conclude - che la staffetta generazionale sbandierata dalla Ministra Marianna Madia a questo punto sia stata rimandata, se non definitivamente messa nel cassetto''. 

 

L'innalzamento dell'età a cui i primari potranno essere mandati in pensione d'ufficio a 68 anni è 'solo un contentino a una lobby', mentre l'intervento sul tema contenuto nel Dl sulla Pubblica amministrazione è ''demagogico e contiene una vendetta contro quella che si vuol far passare come 'casta'. Lo afferma Francesco Ripa di Meana, presidente della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso). Il decreto in origine prevedeva il tetto di 65 anni per tutti, mentre ora è rimasto solo per i dirigenti medici, e non per i primari. ''Io sono contrario all'archiviazione di una generazione per decreto - afferma Ripa di Meana - anche perchè agiamo in un regime di blocco del turnover, in cui spesso è difficile sostituire chi si perde. Quello dei 68 anni è un 'contentino' dato alla lobby dei primari, ma non risolve il problema, perchè in realtà andrebbe ripensato tutto il sistema''. Il nuovo regime, spiega il presidente Fiaso, manca di flessibilità. ''Noi dobbiamo avere delle regole che permettano di restare a chi serve per qualità ed esperienza, ed avere gli strumenti per riuscire a 'mandare via' quelli di cui non si ha il bisogno. Non si può decidere di mandare via tutti per decreto senza guardare alla qualità delle persone''.

  

Le pensioni italiane sono le più tassate d'Europa, e ciò contribuisce a rendere i nostri pensionati tra i più poveri dei paesi sviluppati. Lo afferma il Codacons, commentando i dati diffusi dall'Istat. Di recente è emerso come la tassazione sugli assegni elargiti dall'Inps arrivi in Italia al 20%, contro un prelievo fiscale dello 0,2% in Germania, 5,2% in Francia, 7,2% nel Regno Unito e 9,5% in Spagna. Mediamente, su una pensione di 1.500 euro al mese, un pensionato italiano paga 4.000 euro di tasse all'anno, contro i 39 euro di un tedesco. Tale situazione ha contribuito a determinare la fortissima perdita del potere d'acquisto dei pensionati, crollato del 35% negli ultimi 15 anni, e il progressivo impoverimento di tale categoria. "In Italia più di 2 milioni di cittadini vivono con una pensione inferiore ai 500 euro, e quasi la metà dei pensionati riceve un assegno al di sotto dei mille euro - spiega il presidente Carlo Rienzi - Sono dati vergognosi, cifre assolutamente non in grado di garantire una vita dignitosa. E' necessario ridurre la pressione fiscale sulle pensioni allineandola la tassazione alla media europea, attraverso sgravi fiscali specie per chi riceve assegni da fame".

 

 

Fonte: ansa

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