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Costringere un medico a redigere un certificato di malattia è violenza

Professione Redazione DottNet | 28/08/2016 19:42

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento, Sezione penale, nella sentenza n. 346 del 3 maggio scorso

Costringere il medico curante a rilasciare un certificato medico per una malattia insussistente può integrare il reato di minaccia a pubblico ufficiale. Lo ha stabilito il Tribunale di Trento, Sezione penale, nella sentenza n. 346 del 3 maggio 2016

Una donna, presentatasi dal suo medico di famiglia per un certificato medico, insisteva con la dottoressa affinché rilasciasse certificazione di 15 giorni di malattia, nonostante la stessa, a fronte dei sintomi descritti dalla paziente, riteneva non fossero diagnosticabili più di 5 gg. di malattia.

Dall'istruttoria è emerso che la paziente, uscita dall'ambulatorio, nei corridoi minacciava di far intervenire qualcuno per indurre il medico ad emettere il certificato e, in effetti, dopo poco sopraggiungeva il di lei compagno e i due rientravano nel'ambulatorio con atteggiamento minaccioso: l'uomo, sbattendo i pugni sulla scrivania, costringeva la dottoressa al rilascio certificato con la precisazione che da quel momento il loro rapporto si sarebbe interrotto.

Per tali ragioni, il Tribunale ritiene sussistente a carico dei due il reato di minaccia a un pubblico ufficiale ex art. 336 c.p.; infatti, in relazione alle funzioni esercitate (rilascio di certificazione medica), è da ritenere che la dottoressa al momento dei fatti fosse qualificabile come pubblico ufficiale.

Ai fini dell'integrazione del delitto, evidenzia il giudice, "non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l'uso di qualsiasi coazione, anche morale, ovvero una minaccia anche indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale".

Inoltre, ai fini della consumazione del reato, l'idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata con un giudizio "ex ante", tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto, con la conseguenza che l'impossibilità di realizzare il male minacciato, a meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non esclude il reato, dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato.

Nel caso in esame sussiste l'idoneità delle condotte in concreto tenute da entrambi gli imputati a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale: la dottoressa, infatti, secondo le dichiarazioni dei testimoni, subito dopo i fatti si presentava "visibilmente scossa, impaurita" e "chiedendole cosa fosse accaduto ansimava, quasi come se le mancasse il respiro"; la stessa parte offesa, inoltre, ha riferito di aver temuto per la propria incolumità, di essersi spaventata e di aver rilasciato il certificato così come preteso dagli imputati per fare in modo che questi lasciassero quanto prima lo studio medico.

Entrambi gli imputati sono da ritenere colpevoli per l'ascritto reato. In particolare, oltre al materiale autore della condotta (il compagno), c'è anche la responsabilità della donna, la quale lo ha portato ad intervenire con l'espressa finalità di ottenere l'intimidazione della dottoressa per ottenere il certificato medico.


Fonte: StudioCataldi

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