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Congresso diabetologia: le maggiori novità da Lisbona

Diabetologia Redazione DottNet | 16/09/2017 14:25

Dottnet pubblica un'ampia rassegna delle principali novità illustrate al Congresso di Lisbona

Si è concluso l'Easd 2017, il congresso dell'Associazione europea per lo studio del diabete, quest'anno particolarmente ricco di nuovi studi In apertura il discorso di Giorgio Sesti (nella foto) nel corso dei lavori.

La rilevanza sociale e sanitaria del diabete

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I dati più recenti dell’Osservatorio Arno Diabete, nato da una collaborazione tra Società Italiana di Diabetologia (Sid) e Cineca documentano che il tasso di prevalenza totale del diabete in Italia è pari al 6,2 per cento. È possibile stimare che ogni anno si verifichino 5-7 nuovi casi di diabete tipo 2 ogni 1000 persone, senza significative differenze di genere. Inoltre, da studi epidemiologici si stima che circa un milione di italiani è affetto da diabete mellito senza saperlo. Anche il diabete tipo 1 è in crescita, seppure in misura inferiore in termini assoluti rispetto al diabete tipo 2: secondo i più recenti dati dell’Istituto Superiore di Sanità, nel quinquennio 2005-2010, il valore medio nazionale del tasso di incidenza del diabete tipo 1 nei bambini di età compresa fra 0 e 4 anni, stimato utilizzando le prime ospedalizzazioni, è pari a 13.4/100.000/anno.

Il diabete mellito è una patologia grave essendo ancora una delle principali cause di morte per la sua grande diffusione. Studi italiani hanno dimostrato che il diabete tipo 2 si associa ad un eccesso di mortalità del 35-40 per cento, rispetto alla popolazione generale. Il diabete rappresenta un grave onere a carico dei bilanci economici dei sistemi sanitari nazionali: uno studio dell’Osservatorio Arno Diabete ha stimato che il costo medio annuo per paziente è pari a 2792 euro, con un peso dell’assistenza ospedaliera pari al 51 per cento, della spesa farmaceutica del 32 per cento e dell’assistenza ambulatoriale del 17 per cento. La maggior parte della spesa associata alla malattia diabetica è determinata dal trattamento delle complicanze, non solo nell’anno d’insorgenza della complicanza stessa, ma anche stabilmente negli anni successivi. Le complicanze del diabete che determinano il maggiore impatto sui costi assistenziali risultano essere le nefropatie, le amputazioni e le rivascolarizzazioni degli arti inferiori con un costo addizionale intorno ai 4,5-5 mila euro, seguiti dalle patologie cerebrovascolari con un incremento di costo intorno ai 3500 euro. Seguono le patologie cardiovascolari, la retinopatia, la neuropatia e le complicanze acute, con un costo addizionale compreso tra 1500 e 2000 euro. Oltre ai costi diretti, occorre considerare quelli indiretti: uno studio della London School of Economics ha stimato che costi indiretti della malattia ammontano a 12 miliardi di euro in gran parte attribuibili a prepensionamenti e assenze dal lavoro.

Il diabete ha pertanto una rilevanza sociale oltre che sanitaria e questo è stato sancito, in Italia prima ancora che negli altri Paesi del mondo, da una legge (n. 115 del 1987) che è diventata un punto di riferimento fondamentale. Tale legge ha valorizzato il ruolo dell’assistenza da parte dei centri diabetologici e ha largamente ispirato numerosi documenti nazionali e regionali dei successivi 30 anni, incluso il ‘Piano Nazionale della Malattia Diabetica’ sancito con accordo nel dicembre del 2012 tra Governo e Regione e Province Autonome di Trento e Bolzano su proposta del Ministro della Salute. Il Piano ha consolidato il modello italiano di cura della malattia e identificato diverse aree d’intervento per rendere omogenei gli interventi di prevenzione, diagnosi, monitoraggio e cura delle persone con diabete che vivono in Italia.
 
Un modello che consta, oltre che dei medici di famiglia, di una rete capillare di centri specialistici diffusi su tutto il territorio nazionale, basati su competenze multi-professionali (diabetologo, infermiere, dietista, talora psicologo e/o podologo, e secondo necessità cardiologo, nefrologo, neurologo, oculista) e che forniscono con regolarità consulenze per circa il 50 per cento delle persone con diabete, prevalentemente, ma non esclusivamente, quelle con malattia più complessa e/o complicata.

Per effetto di questa rete l’Italia è il Paese occidentale con il più basso livello medio di HbA1c e i più bassi tassi di complicanze croniche e di eccesso di mortalità nelle persone con diabete. A tale proposito va sottolineato il ruolo dell’assistenza diabetologica nel ridurre la mortalità nelle persone con diabete: coloro che sono assistiti nei centri diabetologici hanno una minore mortalità totale e cardiovascolare rispetto a chi non li frequenta. Anche per questo il ‘Piano Nazionale della Malattia Diabetica’ prevede una presa in carico di tutte le persone con diabete da parte dei centri diabetologici, con l’applicazione di una incisiva gestione integrata con i medici di famiglia. Una presa in carico che è previsto avvenga già nella fase iniziale della malattia. È stato infatti recepito il concetto che il team diabetologico non dovrebbe intervenire per la prima volta quando si è sviluppato un grave scompenso metabolico o quando si sono sviluppate complicanze della malattia.

I team diabetologici italiani costano circa l’1 per cento del totale della spesa sostenuta per curare le persone con diabete e possono contribuire a ridurre in misura assai significativa l’altro 99 per cento delle spesa attraverso la prevenzione delle complicanze croniche, accorciando la durata delle degenze con una presa in carico al momento dell’accoglimento nei reparti chirurgici, ottimizzando l’uso dei farmacie dei dispositivi per il monitoraggio e la cura, osservando una scrupolosa appropriatezza nelle prescrizioni di esami di laboratorio e strumentali, collaborando nelle scelte sulle strategie di cura operate a livello nazionale, regionale e locale.

In questo scenario, la Sid contribuisce in modo incisivo a difendere il modello assistenziale italiano basato sul team diabetologico come sancito nel ‘Piano Nazionale della Malattia Diabetica’, a promuovere e condurre ricerche volte a migliorare le conoscenze fisiopatologiche, cliniche e terapeutiche della malattia e delle sue complicanze, a formare migliaia di giovani e meno giovani medici e professionisti sanitari grazie alla sua attività di provider Ecm accreditato da Agenas. 
Giorgio Sesti
Presidente della Società Italiana di Diabetologia (Sid) 

Intervento al Congresso 53° Easd (European Association for the Studu of Diabetes) di Lisbona

Diabete: la pressione 'ballerina' peggiora le complicanze al cuore

La pressione 'ballerina' in chi ha il diabete peggiora le complicanze cardiovascolari: per proteggere i pazienti è necessario dunque non solo correggere la glicemia ma anche mantenere la pressione ottimale e stabile. Lo rivela uno studio presentato al congresso dell'Associazione europea per lo studio del diabete (Easd) da una ricercatrice della Società Italiana di Diabetologia (Sid), grazie ad un grant della Societa' scientifica, Maria Grazia Radaelli del Policlinico di Monza. Diversi studi hanno dimostrato che non solo elevati valori di pressione arteriosa ma anche un'aumentata variabilità della pressione da una visita all'altra si associa ad un aumentato rischio di mortalità e morbilità cardiovascolare. Lo studio ha analizzato quasi 1000 pazienti che eseguivano almeno quattro visite di controllo presso il centro diabetologico nel periodo 2013-16. I risultati di questa analisi supportano l'ipotesi che nei soggetti con diabete di tipo 2 la mancanza di uno stabile controllo pressorio si associa ad un aumentato rischio di malattie del cuore. Diabetologo e medico di famiglia, insomma, non devono preoccuparsi solo di ottenere un buon controllo della glicemia ma anche un controllo della pressione stabile per ridurre le complicanze nelle persone affette da diabete 2 e migliorarne, quindi, l'aspettativa e la qualità di vita. Il team che "ha in cura il paziente diabetico &ndash spiega il professor Gianluca Perseghin, che insieme ai professori Giuseppe Mancia e Guido Grassi dell'Università di Milano Bicocca ha coordinato l'analisi dei dati &ndash deve pertanto adoperarsi per aumentare la consapevolezza che il paziente deve avere che una attenta somministrazione della terapia lo aiuta a prevenire le complicanze del diabete".

Diabete: la vitamina D è una possibile arma di prevenzione

La vitamina D e' una possibile arma di prevenzione del diabete di tipo 2 poiché migliora la insulino-resistenza e la funzione delle cellule beta pancreatiche produttrici di insulina. Lo rivela uno studio presentato al congresso dell'Associazione europea per lo studio del diabete (Easd) da un giovane ricercatore della Società Italiana di Diabetologia (Sid) grazie ad un grant della Societa', Ernesto Maddaloni. La vitamina D esercita i suoi effetti anche al di fuori delle ossa, influenzando pure il metabolismo. Lo studio ha dunque valutato l'effetto di una supplementazione di calcidiolo (una forma di vitamina D) sull'insulino-resistenza, sulla funzione delle cellule beta pancreatiche e sui marcatori di infiammazione e di stress ossidativo nei soggetti con pre-diabete e bassi livelli di vitamina D. A questo scopo, 150 pazienti sono stati osservati e divisi in 3 gruppi, assumendo a seconda del gruppo diverse quantita' di vitamina D o placebo. I risultati dimostrano che i livelli circolanti di vitamina D risultano correlati sia agli indici di insulino-resistenza che di funzionalità delle beta-cellule, parametri questi che migliorano dopo la supplementazione con alte dosi di calcidiolo. La vitamina D è un ormone che viene in parte assunto attraverso la dieta e in parte sintetizzato dall'organismo, a partire dal colesterolo, grazie all'azione dei raggi ultravioletti del sole. Ne esistono diverse forme e il calcidiolo è la forma di vitamina D che viene misurata nel sangue. Dallo studio non si evidenzia tuttavia la dose ottimale di vitamina D per prevenire il diabete di tipo 2. "Una maggiore comprensione degli effetti della vitamina D sul metabolismo del glucosio, sull'insulino-resistenza e sulla funzione delle cellule beta pancreatiche potrebbe consentire nuovi approcci terapeutici nella prevenzione del diabete tipo 2 e nel progressivo deterioramento del controllo metabolico", ha concluso il presidente della Sid Giorgio Sesti.

Diabete:se fuori controllo ostacola le cure contro il cancro al seno

Il diabete fuori controllo mette 'i bastoni tra le ruote' alle terapie contro il tumore della mammella. Lo dimostra uno studio presentato al congresso dell'Associazione europea per lo studio del diabete (Easd) da una giovani ricercatrice della Società Italiana di Diabetologia, Maria Rosaria Ambrosio, la quale ha scoperto uno dei meccanismi della resistenza ai farmaci indotta dal diabete e che potrebbe diventare un nuovo bersaglio terapeutico. La ricercatrice ha studiato i meccanismi attraverso i quali l'iperglicemia riesce ad influenzare, anche con l'aiuto del tessuto adiposo, la sensibilità delle cellule di tumore della mammella al tamoxifene, un farmaco anti-ormonale utilizzato nel trattamento di alcune forme di questa neoplasia. Si e' cioe' evidenziato che livelli di glucosio troppo elevati modificano la sensibilità delle cellule del tumore al tamoxifene in condizioni sperimentali e molto importante e' anche il ruolo delle cellule adipose nell'interferire con una buona risposta alle terapie anti-tumorali. Gli autori ribadiscono dunque la raccomandazione di uno stretto controllo della glicemia nelle donne diabetiche affette da cancro della mammella, anche allo scopo di ottenere una migliore risposta ai farmaci anti-tumorali. Diabete e tumori, sottolineano i ricercatori, sono legati da una relazione pericolosa. Il diabete di tipo 2 infatti aumenta del 20% il rischio di ammalarsi di tumore della mammella e, viceversa, il 16% delle donne affette da carcinoma mammario presenta anche diabete. Una serie di studi ha inoltre dimostrato che le persone con diabete presentano forme tumorali più aggressive. "Si tratta di una ricerca importante con promettenti ricadute cliniche per le donne diabetiche affette da tumore al seno &ndash commenta Giorgio Sesti, presidente SID &ndash. L'avanzamento delle conoscenze in questo campo potrebbe consentire in futuro di ottenere una maggiore risposta ai farmaci anti-tumorali".

Un farmaco 'sugar-killer' contro il diabete dei giovani

Passi Avanti contro il diabete di tipo 1, quello che colpisce in prevalenza i giovani: potrebbe infatti essere presto in arrivo un nuovo farmaco con una funzione 'sugar-killer', ovvero in grado di abbassare il livello di glucosio nel sangue. E' una pillola da prendere giornalmente e l'obiettivo e' quello di ridurre cosi' le dosi di insulina che questi pazienti devono necessariamente somministrarsi. Lo studio e' stato presentato al Congresso dell'Associazione Europea per lo studio del diabete (Easd) e contemporaneamente pubblicato sul New England Journal of Medicine, ma gli esperti invitano comunque alla cautela ricordando come per questa forma di diabete la terapia insulinica resti al momento insostituibile. Lo studio, cui hanno preso parte 1.402 soggetti con diabete 1, ha visto coinvolta anche l'Italia con l'Università Campus Bio-Medico (Ucbm) di Roma ed ha interessato in tutto 133 centri dislocati in 19 paesi. Il farmaco (Sotagliflozin) si è dimostrato capace di abbassare la glicemia e l'emoglobina glicata dei pazienti (che è indice di buon controllo della malattia) e di ridurre la dose quotidiana d'insulina necessaria. Tenere meglio sotto controllo la malattia grazie a questo farmaco, spiega il primo autore Paolo Pozzilli, docente UCBM, "può significare un minor rischio di complicanze a lungo termine. La nuova compressa cancella inoltre gli sbalzi glicemici e porta all'eliminazione dell'eccesso di zucchero attraverso le urine". Si tratta di un "passo Avanti" secondo il presidente della Societa' italiana di diabetologia (Sid) Giorgio Sesti, il quale invita pero' alla prudenza: "Si tratta di un farmaco intelligente. Da un lato, agisce, chiudendolo, sul 'rubinetto' di entrata del glucosio, ovvero l'intestino e dall'altro apre il rubinetto di eliminazione del glucosio, ovvero il rene. Cio' implica una riduzione del fabbisgno di insulina e rappresenta un grande miglioramento, tuttavia - avverte - al momento non c'e' ancora un protocollo definito e parlare di una riduzione delle dosi di insulina puo' essere rischioso. Quest'ultima, infatti, al momento e' l'unica terapia per I diabetici di tipo 1". Passo successivo, dunque, chiarisce Sesti, "sara' stabilire in un protocollo come concretamente poter 'scalare' le dosi di insulina evitando ogni rischio di complicanze". Il diabete di tipo 1, ricorda il diabetologo Andrea Giaccari del Policlinico Gemelli di Roma, "e' una malattia autoimmune. Questo e' il primo farmaco effettivo che arrivera' in Europa per il diabete 1, sempre in aggiunta alla terapia con insulina. Sicuramente uno strumento in piu', che va utilizzato pero' con grande controllo". Infatti, gran parte dei 300mila italiani affetti da diabete 1 sono giovani e "bisogna evitare il rischio - conclude - di un uso scorretto di tale farmaco che, va ribadito, non e' assolutamente sostitutivo dell'insulina".

I dolcificanti potrebbero favorire il diabete

Usare molti dolcificanti artificiali aumenta il rischio di ammalarsi di diabete: infatti un consumo anche solo di due settimane è risultato associato ad alterazioni importanti della risposta dell'organismo allo zucchero. Lo rivela una ricerca di Richard Young della Adelaide Medical School, University of Adelaide, in Australia che quindi conferma i risultati di precedenti studi in cui si era già intravisto un collegamento tra uso di dolcificanti artificiali, o di bibite cosiddette 'diet' che li contengono, e rischio diabete. Il lavoro sarà presentato al meeting annuale della European Association for the Study of Diabetes (EASD) in corso a Lisbona. Gli esperti hanno coinvolto 27 individui sani e gli hanno ''somministrato'' per due settimane delle ''pillole'' di dolcificanti prima dei pasti, per un quantitativo complessivo giornaliero equivalente al dolcificante contenuto in un litro e mezzo di bibite 'light'. Altri soggetti invece hanno assunto una sostanza placebo. I partecipanti sono stati sottoposti a una serie di test classici che si fanno per i diabetici per vedere come il loro organismo risponde allo zucchero dopo i pasti: la risposta dell'organismo risulta alterata solo negli individui che hanno assunto il dolcificante e non in quelli che hanno preso placebo. Le alterazioni sono di vario tipo: si riduce un ormone (chiamato peptide glp-1) che serve a mantenere nella norma i livelli di zucchero nel sangue dopo i pasti; inoltre aumenta l'assorbimento di zucchero da parte dell'organismo. Infine risultano aumentati anche i livelli di glucosio nel sangue dopo i pasti. Pur trattandosi di un piccolo studio, concludono gli autori, i risultati mostrano che un consumo di dolcificanti anche limitato nel tempo può alterare la risposta allo zucchero, di fatto suggerendo un possibile aumento del rischio di diabete.

Diabete: la caffeina riduce il rischio di morte tra le donne

La caffeina riduce il rischio di morte nelle donne affette da diabete: quelle che bevono regolarmente caffè o te' vivono infatti più a lungo rispetto alle donne malate che non ne consumano, ma tale associazione non si riscontra tra gli uomini. Lo dimostra uno studio dell'Università di Porto (Portogallo) presentato al congresso dell'Associazione europea per lo studio del diabete (Easd). I ricercatori hanno osservato che maggiore è la quantità di caffeina consumata, minore è il rischio di morte nelle donne diabetiche. Hanno inoltre rilevato che l'effetto protettivo dipende dalla fonte della caffeina: più alti livelli di consumo di caffeina da caffè sono infatti associati ad un minore rischio di morte per tutte le cause ed in particolare per malattie cardiovascolari; al contrario, le donne che consumavano più caffeina da Te' facevano registrare una minore probabilità di morire per cancro. Più dell'80% della popolazione adulta mondiale consuma caffeina giornalmente e vari studi hanno dimostrato l'effetto benefico del caffè rispetto al rischio di morte per tutte le cause nella popolazione generale, ma poco si sapeva circa il ruolo della caffeina sulla mortalità delle persone diabetiche. Lo studio ha preso in considerazione un campione di 3.000 uomini e donne diabetici dal 1999 al 2010. I ricercatori hanno così evidenziato che le donne diabetiche che consumavano fino a 100 mg di caffeina al giorno (una normale tazza di caffè) avevano il 51% di possibilità in meno di morire delle donne che non consumavano caffeina. Con un consumo da 100 a 200 mg al giorno, il rischio di morte era minore del 57% e con un consumo maggiore di 200 mg (due tazze di caffè) il ridotto rischio di morte era del 66%. Inoltre si è anche osservato che le forti consumatrici di caffeina da Te' registravano un minore rischio di morte da cancro pari all'80%. Tuttavia, precisano gli autori, ulteriori conferme sono necessarie ed "il nostro studio osservazionale può solo suggerire la possibilità di un effetto protettivo della caffeina".

Diabete: l'influenza suina gioca un ruolo rilevante nell'innescare malattia

Il virus H1N1 dell'influenza, la cosiddetta 'influenza suina', puo' giocare un ruolo nell'innescare il diabete di tipo 1, aumentando il rischio di ammalarsi soprattutto nei bambini. Lo evidenzia uno studio dell'Istituto norvegese di salute pubblica e dell'Oslo University Hospital, presentato al congresso dell'Associazione europea per lo studio del diabete (Easd). Nello studio, i ricercatori hanno analizzato i registri sanitari norvegesi dell'intera popolazione di 30 anni o eta' inferiore (2,28 milioni di persone) tra giugno 2009 e giugno 2014 quando un'ondata pandemica di influenza H1N1 ha colpito il Paese, per verificare se la diagnosi di influenza pandemica era associata ad un aumentato rischio di diabete di tipo 1. I risultati hanno cosi' evidenziato che i soggetti infettati dal virus H1N1 erano due volte piu' a rischio di sviluppare diabete 1 rispetto alla popolazione generale. A seguito della pandemia del 2009, sono 2.376 i soggetti che hanno avuto una diagnosi di diabete tipo 1 e coloro che erano stati colpiti dal virus influenzale H1N1 nello stesso periodo evidenziavano un maggior rischio del 18% di contrarre tale forma di diabete. Tale associazione si è rivelata ancora più forte nei ragazzi di 15 anni o più piccoli: in questa fascia di età, infatti, si è registrato un maggior rischio del 25% di sviluppare la malattia. Lo studio, concludono gli autori, "supporta dunque l'ipotesi che le infezioni respiratorie possano contribuire allo sviluppo del diabete di tipo 1 a causa dello stress e dell'infiammazione conseguenti, nei soggetti predisposti". Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune in cui il sistema immunitario distrugge le cellule del pancreas necessarie per controllare i livelli di zucchero nel sangue. Oltre 65.000 nuovi casi sono diagnosticati ogni anno nel mondo. Tuttavia, la causa della malattia non è ancora chiara. Secondo i ricercatori esiste una suscettibilità genetica a sviluppare tale forma di diabete, ma perché essa si manifesti ritengono sia anche necessario un qualche elemento scatenante di tipo ambientale. E le infezioni virali, come l'influenza H1N1, affermano, "possono rappresentare tale 'grilletto'".

Diabete in gravidanza a rischio:solo una donna su due fa lo screening

Solo una donna su due tra quelle ad alto rischio fa lo screening precoce del diabete in gravidanza: in pericolo sono soprattutto le donne obese e con alterata glicemia a digiuno nel primo trimestre. Lo rivela uno studio presentato al congresso del'Associazione europea per lo studio sul diabete (Easd) da una giovane ricercatrice della Società Italiana di Diabetologia (Sid), Cristina Bianchi, grazie ad un grant della SID. Il diabete gestazionale è l'alterazione metabolica più frequente in gravidanza. Lo screening del diabete gestazionale è selettivo, cioè basato sulla presenza di fattori rischio, e prevede l'esecuzione di una curva da carico orale di glucosio. Nelle donne ad alto rischio (pregresso diabete, obesità, alterata glicemia) è previsto uno screening precoce fra la 16-18 settimana gestazionale da ripetere fra la 24-27 settimana. Nessuno screening è invece previsto per le donne senza fattori di rischio. Lo studio rivela che, a fronte di linee guida pubblicate gia' dal 2011, lo screening precoce è al momento eseguito solo nella metà delle donne ad alto rischio nonostante la possibilita' di serie complicanze. Gli autori hanno valutato 1338 donne incinte, seguite presso il Centro Diabetologico dell'Ospedale di Cisanello (Pisa), dove hanno effettuato lo screening del diabete. Il 14,4% delle donne valutate era ad alto rischio; di queste l'84,3% presentava un solo fattore di rischio e il 15.7% due. Gli autori hanno cosi' rilevato che lo screening precoce era stato eseguito solo in una metà dei casi e che solo il 28% lo aveva ripetuto. La prevalenza di diabete gestazionale nelle donne ad alto rischio valutate nello studio era del 67% ed era individuabile nel 40% dei casi già al momento dello screening precoce. Il diabete gestazionale, afferma il presidente Sid Giorgio Sesti, "è associato a elevato rischio di morbilità materna e del neonato ma la sua diagnosi precoce consente di portare a termine una gravidanza in modo sicuro. Il dato che preoccupa è la bassa proporzione di screening precoce nelle donne ad alto rischio. Questi dati dovranno essere oggetto di attenta valutazione non solo dei medici ma anche dalle autorità di salute pubblica".

Troppo sale a tavola accresce il rischio diabete

Il sale consumato a tavola potrebbe aumentare il rischio sia di diabete di tipo 2 (insulino-resistente, la forma più diffusa al mondo), sia di una forma meno diffusa di diabete che si chiama LADA (diabete autoimmune latente degli adulti) e somiglia per certi aspetti al diabete giovanile (di tipo 1 o insulino-dipendente) ma colpisce gli adulti e compare molto lentamente. Secondo uno studio presentato al congresso dei diabetologi europei a Lisbona, il ''presunto colpevole'' è il 'sodio' contenuto nel sale che usiamo a tavola e che è contenuto già in molti cibi; il sodio rappresenta il 40% del peso del sale stesso. La ricerca è stata condotta presso l'Istituto Karolinska di Stoccolma. Il sale da cucina è il cloruro di sodio e il quantitativo in sodio in un grammo di sale è 0,4 grammi. L'Oms raccomanda un consumo giornaliero di sale inferiore ai 5 grammi. Gli esperti hanno confrontato il consumo di sale di pazienti (355 con LADA e 1136 con diabete 2) e soggetti sani di controllo (1379) e visto che chi consuma tanto sodio (2,9 grammi al dì che corrispondono a ben 7,3 grammi di sale al giorno) ha un rischio di ammalarsi di diabete 2 del 72% maggiore rispetto a chi consuma poco sodio (consumo/dì inferiore a 2,3 grammi di sodio pari a un consumo di sale inferiore a 6 grammi al giorno). Per quanto riguarda il diabete autoimmune degli adulti (LADA) il rischio legato al consumo di sodio è ancora più rilevante: chi consuma tanto sodio ha un rischio triplo di ammalarsi rispetto a chi ne consuma poco (secondo le quantità riferite sopra). Questi risultati hanno importanti implicazioni nella prevenzione del diabete, specie di quello autoimmune con esordio in età adulta.

Fonti: ansa, easd 2017, Karolinska, Sid, Oslo University Hospital, Adelaide Medical School, University of Adelaide, New England Journal of Medicine, Policlinico di Monza,

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