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Omicron, che cosa si sa e le incognite sulla nuova variante

Infettivologia Redazione DottNet | 23/12/2021 16:42

E' presente in 78 i Paesi e in un mese sono state oltre 19.100 le sequenze genetiche della Omicron depositate nella banca dati internazionale Gisaid

Al di là di pochi dati certi sulla Omicron, ci sono domande fondamentali su questa variante del virus SarsCoV2 che non hanno ancora risposte, come quelle relative alla sua capacità di sfuggire ai vaccini e di provocare o meno una forma grave della malattia. 

Che cosa sappiamo
Identificata per la prima volta il 22 novembre 2021 nei laboratori di Botswana e Sud Africa che stavano analizzando campioni del virus prelevati fra l'11 e il 16 novembre, la variante si è rapidamente imposta all'attenzione di tutto il mondo. Il 24 novembre, infatti, il Sud Africa la segnalava all'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che già il 28 novembre parlava di una "corsa contro il tempo" per riuscire ad arginarla.
Al momento sappiamo che sono 78 i Paesi nei quali è presente e che in un mese sono state oltre 19.100 le sequenze genetiche della Omicron depositate nella banca dati internazionale Gisaid. Sappiamo inoltre che la nuova variante sta diventando prevalente in alcuni Paesi: attualmente sono almeno 15 quelli in cui la Omicron è presente nella maggior parte delle sequenze genetiche depositate; in sei di questi Paesi la Omicron ha già raggiunto il 100% delle sequenze, sostituendosi alla Delta. E' chiaro inoltre che la variante ha un'elevata capacità di infettare, fra 3 e 7 volte più alta rispetto alla variante Delta. Ed è anche noto che la Omicron comprende 32 mutazioni sulla proteina Spike, che il virus utilizza come un artiglio per aggredire le cellule. "Di queste mutazioni, circa un quarto erano note in quanto presenti anche nella variante Delta e tre quarti sono del tutto nuove", osserva il genetista Massimo Zollo, dell'Università Federico II di Napoli e coordinatore della Task force Covid-19 del Ceinge-Biotecnologie avanzate.

Le domande aperte
Fra le cose che non conosciamo ancora della nuova variante c'è il ruolo delle mutazioni presenti nelle regioni genoma diverse da quella della proteina Spike che si solito viene considerata e che, rileva Zollo, "costituisce appena il 2% del genoma del virus". Sapere come sono mutate le altre regioni del virus potrebbe fornire, per esempio, informazioni importanti per la ricerca su nuovi farmaci e vaccini.

Quanto ai vaccini, un'altra grande domanda riguarda la loro capacità di contrastare la Omicron. Molti studi sono in corso e i dati preliminari ad ora disponibili sembrano indicare che i contagi non vengono evitati. Resta da capire poi se e quanto la terza dose del vaccino sia in grado di bloccare la Omicron e in proposito non ci sono dati sufficienti per trarre delle conclusioni. Ci si domanda anche quanto tempo è necessario alla Omicron per replicarsi, ossia ogni quanto tempo i casi provocati da questa variante raddoppiano, e al momento l'ipotesi prevalente indica da 2 a 3 giorni. Nessun dato definitivo nemmeno sulla rapidità con la quale la variante infetta la cellula umana. Resta da chiarire, infine, se e quante persone già colpite da altre varianti possono reinfettarsi.

Ma vediamo nel dettaglio come funzionano i vaccini con la nuova variante. La maggior parte degli studi ha riscontrato la capacità di omicron di sfuggire a parte delle difese che il nostro sistema immunitario sviluppa, in seguito alla vaccinazione o a un’infezione vera e propria con le precedenti varianti del coronavirus. Uno studio svolto in Sudafrica ha rilevato che la capacità del vaccino di Pfizer-BioNTech di bloccare un’infezione da omicron è passata al 33 per cento con l’inizio della ondata dovuta alla nuova variante, rispetto all’80 per cento rilevato con le precedenti varianti. Il vaccino si è però rivelato un’importante risorsa nel prevenire i ricoveri, mantenendo una capacità del 70 per cento (in precedenza era del 93 per cento). Un altro studio condotto nel Regno Unito, dove è in corso un’ondata causata da omicron piuttosto sostenuta, ha rilevato che due dosi di Pfizer-BioNTech sono efficaci al 30 per cento nel prevenire la comparsa di sintomi. È bene ricordare che per la maggior parte dei vaccinati eventuali sintomi da COVID-19 sono solitamente lievi e di breve durata, con rari casi in cui la malattia progredisce rendendo necessario un ricovero in ospedale.

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Altre difese e reinfezioni
Diversi altri studi hanno rilevato una riduzione nel livello di anticorpi, anche se l’entità della diminuzione varia sensibilmente a seconda delle ricerche. Come abbiamo visto, gli anticorpi neutralizzanti non sono comunque l’unica risorsa che utilizza il nostro organismo per contrastare un’infezione. Le ricerche sono in corso per valutare la protezione offerta dai linfociti T: per ora sembra che queste cellule riconoscano il virus da parti non interessate dalle mutazioni di omicron, di conseguenza la variante non dovrebbe sfuggire al loro controllo e al mantenimento di una certa immunità contro lo sviluppo delle forme più gravi della malattia.

L’immunità contro l’infezione, cioè quella che riduce altamente il rischio di ammalarsi in prima istanza, tende invece a diminuire nel corso del tempo come inevitabilmente avviene con molte altre malattie. Questa riduzione combinata alle numerose mutazioni di omicron fa sì che ci siano maggiori rischi non solo di subire l’infezione, ma anche che questa riguardi persone che si erano già contagiate con le versioni precedenti del coronavirus.

Un’analisi svolta dall’Imperial College di Londra ha per esempio segnalato che la probabilità per i guariti di subire un’infezione da omicron è cinque volte più alta rispetto a quella comportata dalla variante delta. Altri studi condotti in Sudafrica hanno evidenziato una situazione simile, segnalando come chi aveva subìto il contagio durante la prima ondata ha un rischio di infettarsi con la omicron di poco inferiore rispetto a chi non ha mai contratto il coronavirus.

Richiamo
La somministrazione di una dose di richiamo (la seconda dose per chi si era vaccinato con Johnson & Johnson, la terza per gli altri) sembra migliorare sensibilmente le cose, specialmente nel caso dei vaccini a base di mRNA, ormai i più utilizzati in Italia e in diversi altri paesi occidentali. La dose di rinforzo induce una nuova moltiplicazione delle cellule immunitarie, che a loro volta producono nuovamente anticorpi, da subito disponibili per contrastare una nuova infezione. Gli anticorpi nel corso del tempo tendono nuovamente a svanire, ma il processo fa sì che alla fine rimanga una quantità maggiore di cellule immunitarie, che potranno offrire una risposta più immediata ed efficace nel caso di una nuova infezione.

Attraverso il sistema linfatico, l’autostrada del nostro sistema immunitario, alcune di queste cellule raggiungono i linfonodi, dove attraverso mutazioni diventano via via più abili nel produrre anticorpi altamente specifici contro la minaccia che hanno incontrato. Questo processo (“maturazione dell’affinità”) è alla base della costruzione di una migliore protezione contro le malattie. In natura avviene con la ripetuta esposizione ai patogeni (quasi sempre ammalandosi), mentre con i vaccini tramite la somministrazione di dosi aggiuntive quando necessario. Questo effetto di rinforzo viene in parte raggiunto con la seconda dose dei vaccini contro il coronavirus, ma già prima dell’emersione di omicron si era iniziato a constatare che due somministrazioni non fossero sempre sufficienti per stimolare la massima produzione possibile di nuove cellule immunitarie.

Studi condotti in laboratorio nelle ultime settimane hanno rilevato un aumento significativo di anticorpi neutralizzanti dopo la dose di richiamo, tale da essere considerato adeguato per contrastare un’eventuale infezione da omicron. I primi dati raccolti da Moderna, uno dei principali produttori di vaccini a mRNA contro il coronavirus, indicano che la somministrazione di una dose aggiuntiva dopo quelle del primo ciclo vaccinale fa aumentare sensibilmente il livello di anticorpi e offre una migliore protezione contro le forme gravi della malattia.

I dati sugli effetti dei richiami non sono ancora molto solidi, sia perché la quantità di persone con terza dose è ancora ridotta in molti paesi, sia perché devono essere considerate molte altre variabili sull’andamento della pandemia nei diversi paesi. Vista comunque la velocità con cui si sta diffondendo omicron, molti governi hanno scelto di accelerare il più possibile la somministrazione dei richiami.

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