Non c’è settore che negli ultimi anni abbia mostrato una vitalità paragonabile a quella degli integratori alimentari in Italia.
Un comparto in netta crescita, capace di attirare nuovi attori ogni giorno, muovendosi in un contesto regolatorio molto “elastico”. Allo stesso tempo, il mondo dei dispositivi medici si muove in direzione diametralmente opposta: più rigore, più requisiti, minor ingresso. Per gli integratori, invece, siamo nella “età della deregolamentazione”: opportunità – sì – ma anche rischi concreti per i consumatori e la reputazione del settore e di validità dei risultati che i consumatori si aspettano dall’assunzione degli stessi.
Un mercato da record
Nel 2024 il mercato italiano ha toccato una quota da 5,2 miliardi €, crescendo del +5,5 % rispetto al 2023. L’Italia detiene il 26 % del fatturato europeo, seguita da Germania (19 %) e Francia (15%) – numeri che confermano la leadership nazionale nel comparto. Le vendite in farmacia rappresentano circa 3,5 miliardi € (76-78% del mercato), mentre il resto si suddivide tra GDO (7,7%), parafarmacie (7,6%) e online (6,9%, pari a circa 300 milioni €, in forte crescita). Ogni anno vengono lanciate oltre 4.000 nuove referenze, a testimonianza di un mercato ipercompetitivo e in accelerato fermento.
Oltre 30 milioni di italiani – circa il 73% della popolazione – hanno assunto almeno una volta un integratore nel 2023, generando quasi 300.000 tonnellate di prodotto venduto. Il trend è sostenuto da una crescente attenzione alla prevenzione, dalla diffusione di formati innovativi (gummy, shot, capsule molli) e da una domanda particolarmente vivace tra donne (34% del valore) e bambini (CAGR 11%).
Barriere zero e ingresso libero
L’immissione sul mercato di un nuovo integratore richiede solo di inviare una notifica al Ministero della Salute, inoltrando etichetta e scheda tecnica, senza obbligo di trial clinici o certificazioni preventive. Nessuna valutazione preventiva di efficacia, nessun obbligo di studi clinici comparabili a quelli richiesti per i farmaci o i medical device. Chiunque – dalla multinazionale alla startup artigianale – può entrare, a patto di rispettare quantità e ingredienti previsti dalla normativa alimentare. Nessun test d’efficacia, nessuna documentazione clinica: il marketing può giocare con suggestioni su salute e performance, affondando nel mare grigio tra informazione e allarmismo.
Avviare un’azienda di integratori richiede, oggi, un investimento minimo: bastano 15.000-20.000 € per notificare un prodotto al Ministero della Salute, senza obbligo di studi clinici o certificazioni preventive. Questo ha creato un mercato iper-frammentato: 200 e più aziende operanti in Italia, tra multinazionali, startup e laboratori artigianali. Il risultato? Un’esplosione di referenze (4.000/anno) che alimenta la teoria della coda lunga: l’80% del fatturato è generato dal 20% dei prodotti (soprattutto probiotici e vitamine), mentre il restante 80% delle referenze sopravvive con vendite marginali.
E qui sta il paradosso: mentre per i dispositivi medici il nuovo Regolamento Europeo MDR 2017/745 ha introdotto un sistema di controlli, tracciabilità e valutazione delle prestazioni che ha messo in crisi più di un produttore – costringendo molti a rivedere il proprio portafoglio prodotti o addirittura a uscire dal mercato –, per gli integratori il percorso resta sorprendentemente agevole. Bastano, infatti, una notifica, un’etichetta conforme e il rispetto dei limiti di ingredienti e dosaggi previsti dalla normativa alimentare, il che, tradotto in termini di business, significa: “entra chiunque abbia un’idea e un po’ di budget per il marketing”, oppure “ho alcuni amici medici che mi aiuteranno” o “mio cugino sa promuovere sui social”.
Deregulation deregulation
La normativa consente claims nutrizionali e salutistici solo se approvati dall’EFSA, vietando tassativamente riferimenti terapeutici. Il comparto, quindi, vive in perenne equilibrio tra le limitazioni severe dei claim autorizzati al pubblico e la promozione al medico. Le comunicazioni dirette al medico tramite informatori, infatti, sono spesso molto più libere e si basano su studi relativi ai singoli attivi presenti nell’integratore in promozione.
Le aziende, erroneamente, si considerano immuni dai rischi connessi al reato di comparaggio che invece sono associati ai farmaci, tuttavia sottovalutano reati come la corruzione tra privati, l’associazione a delinquere e altre violazioni che si possono configurare con comportamenti scorretti nei confronti dei medici.
Le aziende di integratori non hanno minimamente tenuto in considerazione le nuove normative relative al cd. Sunshine Act che impongono obblighi a tutti gli attori che si relazionano con gli operatori sanitari. Si tratta di rischi che, ad oggi, non sembrano rientrare nell’attenzione delle imprese, probabilmente anche per una scarsa consapevolezza in merito.
Siamo a un bivio
Sarebbe il caso, forse, di avviare una riflessione seria su come garantire qualità, trasparenza e tutela del consumatore, senza soffocare l’innovazione. Come insegna la storia dei medical device, infatti, la deregolamentazione selvaggia può essere un’arma a doppio taglio: oggi fa crescere il mercato, domani potrebbe minarne le fondamenta.
Il modello attuale, se non corretto, rischia di replicare la crisi dei dispositivi medici pre-MDR: troppa offerta, troppa confusione, troppa sfiducia. L’“età della deregolamentazione” degli integratori può durare solo se diventa “l’età della responsabilità”.
Salvatore Ruggiero,
CEO Merqurio e Autore di:
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