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Cassazione, medici e infermieri responsabili per i farmaci somministrati

Medlex Redazione DottNet | 15/05/2019 17:51

La Suprema Corte ha condannato sia il personale infermieristico che medico a causa di un errore di un farmaco antiblastico

Il compito di somministrare i farmaci negli ospedali spetta agli infermieri, che vi adempiono attenendosi alle prescrizioni fatte dai medici. La Corte di cassazione, con la sentenza numero 20270/2019 (clicca qui per scaricare il documento completo), ha però precisato che la somministrazione del farmaco è un atto non meccanicistico ma collaborativo con il personale medico.

Ovvero l'infermiere, pur non potendo sindacare l'operato del medico, deve in ogni caso richiamare l'attenzione su degli errori che sia in grado di apprezzare ed esporre i suoi eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia. In pratica ha un ruolo di garanzia nella sfera della terapia farmacologica, limitato al confronto con il medico al quale è demandata la scelta della cura migliore per il paziente.

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Tra i compiti dell’infermiere c’è la "segnalazione di 'anomalie' che sia in grado di riscontrare o di eventuali 'incompatibilità' fra farmaci o fra la patologia ed il farmaco da somministrare o fra particolari condizioni (per es. allergie annotate in cartella o a sua conoscenza) e la cura prevista".

La vicenda

Nel caso in questione, all'infermiera imputata in giudizio era stato rimproverato di aver preparato una dose di un farmaco per un paziente, attenendosi alla prescrizione interna nonostante la chiara esorbitanza rispetto alla posologia contemplata nell'esperienza medico-scientifica e alle tecniche di somministrazione del farmaco.

La donna aveva agito senza preoccuparsi di sollecitare un medico strutturato affinché controllasse l'adeguatezza della posologia, nonostante i dubbi nutriti in proposito. Si era tuttavia confrontata con uno specializzando. Nel dettaglio l’'errata somministrazione di un farmaco antiblastico a una paziente affetta da linfoma di Hodgkin in chemioterapia ne aveva provocato la morte. Questo perché durante il ciclo terapeutico è stata somministrata, per errore di trascrittura sul foglio di prescrizione interna, una dose di 90 mg di farmaco antiblastico anziché 9 in base alla superficie corporea della paziente, già trattata in precedenza in modo analogo, ma con le giuste dosi, con successo.

I referenti degli infermieri

Per la Cassazione, occorre che il giudice del merito torni sul punto, verificando se, dai vari elementi raccolti in giudizio, possa essere ricavata una regola di condotta contenuta in norme procedurali note o conoscibili dall'agente modello, che preveda che l'infermiere, per sciogliere dei nodi relativi al dosaggio dei farmaci, debba confrontarsi solo con medici cc.dd. strutturati e non possa validamente interloquire con gli altri medici operanti nei reparti, come gli specializzandi, comunque dotati di relativa autonomia di intervento.

Per la Cassazione l’infermiere ha un ruolo di garanzia nella terapia farmacologica, limitato al confronto con il medico che invece deve scegliere la cura migliore per il paziente. Per cui è obbligo dell’infermiere la "segnalazione di anomalie che egli sia in grado di riscontrare o di eventuali incompatibilità fra farmaci o fra la patologia ed il farmaco da somministrare o fra particolari condizioni (per es. allergie annotate in cartella o a sua conoscenza) e la cura prevista".

Prima e dopo la vicenda erano intervenuti anche altri colleghi dei due professionisti, ma senza risolvere l'errore e, quindi, anch'essi imputabili secondo i giudici. Secondo la Cassazione, infatti, "l'evento letale era stato determinato da un gravissimo errore dell'anestesista, qualificato dalla Corte "rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile", rispetto a quello innescato dalla prima condotta".

"Si tratta di un principio – si legge nella sentenza - ribadito anche di recente da questa Sezione, secondo cui, in tema di reati colposi omissivi impropri, l'effetto interruttivo del nesso causale può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare".

"Il canone si estende certamente – prosegue la sentenza riportata da Quotidiano Sanità - al reato commissivo, qual è quello di specie, e che, tuttavia, in egual modo implica che l'esorbitanza del rischio sia tale da costituire 'rischio nuovo'". "Nell’ipotesi in esame – sottolinea la Cassazione – il rischio garantito da colui che compila la diaria della cartella clinica, indicando la dose del farmaco da somministrare, è quello relativo alla tutela del paziente da errori posologici che possano influenzare la salute e l’efficacia della cura.

Laddove successivamente, sulla base di quell’errore, intervenga da parte di medico che opera in un secondo momento, proprio l’errata somministrazione, non può ritenersi ‘non nuovo’ il rischio determinato dalla realizzazione dell’errore primario, che il primo agente era chiamato a evitare". Secondo la sentenza quindi "non può ritenersi … che la condotta del medico specialista abbia interrotto la serie causale attivata proprio dalla condotta colposa del medico specializzando".

E per quanto riguarda l’infermiera il discorso è analogo e la sentenza sottolinea che "vanno richiamate le medesime osservazioni". Secondo la Cassazione "a questo punto, prima di affrontare le ulteriori questioni poste, relative alla sussistenza del reato continuato in concorso relativo e alla commisurazione concreta della pena debbono vagliarsi gli ulteriori motivi essendo stati già esaminati quelli di rito". La Cassazione fa riferimento alla normativa che regola la professione di infermiere, sottolineando la "pluralità di disposizioni di natura legislativa e regolamentare che ne hanno profondamente mutato la natura disegnando l’autonomia operativa propria tipica della figura professionale".

"La complessa normativa tratteggia dunque spiega la sentenza - una figura professionale che, per le competenze che le sono affidate, assume una specifica e autonoma posizione di garanzia nei confronti del paziente nella salvaguardia della salute, della cura e dell'assistenza, il cui limite è l'atto medico".

In questo ambito secondo la Cassazione l'atto di somministrazione del farmaco è concepito, secondo la giurisprudenza di legittimità come atto "non meccanicistico ma collaborativo con il personale medico orientato in termini critici, al fine non di sindacare l'operato del medico bensì per richiamarne l'attenzione su errori percepiti ovvero per condividere gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita". Secondo la sentenza "è chiaro tuttavia, che la prescrizione dei farmaci resta al di fuori delle competenze infermieristiche e che il ruolo di garanzia che compete all’infermiere nella 'sfera' della terapia farmacologica si limita al 'confronto' con il medico cui è demandata la scelta della cura".

"E’ chiaro – concludono i giudici della Suprema Corte come si legge su Quotidiano Sanità - che l'elemento della disorganizzazione, della confusione dei compiti, della mancanza di un procedimento di controllo dell'opera degli specializzandi e in generale dei medici operanti nel reparto, ma ancor di più l'affidamento di compiti di 'copiatura' delle prescrizioni a meri studenti di medicina, ignari del significato delle indicazioni trascritte, l'assenza di controlli successivi destinati a elidere gli eventuali errori e, dunque, in generale la mancanza di una procedimentalizzazione effettiva, coinvolgente tutti gli attori intervenienti nella formulazione, nella comunicazione e nell'approntamento del farmaco da somministrare, sono condizioni incidenti sul grado di rimproverabilità della condotta, che non possono venire tout court ignorate nella determinazione della pena per il reato colposo".

Quello che viene descritto dalla sentenza come un vero e proprio 'sfascio organizzativo', la cui entità portò, dopo l'ispezione, alla chiusura del reparto di oncologia, "deve riversarsi sul giudizio relativo alla sanzione penale irrogata per il reato colposo, essendo detto quadro quello in cui si maturarono la negligenza e l'imperizia dei medici coinvolti, certamente favorite dalla più generale negligenza connotante l'assenza di adeguamento dell'unità operativa agli standard di sicurezza necessari, ragione per la quale si giunse alla temporanea sospensione dell'attività". Per la Cassazione la sentenza della Corte d’appello "riconosce che un simile stato di cose influenzò la commissione dei reati di falsità ideologica, il cui elemento soggettivo per la sua natura dolosa, prescinde dalle condizioni esterne, che possono al più oggettivamente agevolare la realizzazione del delitto, ma non considera, invece, che proprio la disorganizzazione grava in concreto sull'effettiva realizzazione della condotta colposa incidendo sulla divergenza fra la condotta tenuta e quella attesa".

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