Nei pazienti con melanoma, la somministrazione sequenziale di due molecole (guadecitabina e l'immunoterapico ipilimumab) migliora la capacità del sistema immunitario di riconoscere ed attaccare le cellule tumorali
Cambiare al tumore il suo 'identikit' per renderlo maggiormente riconoscibile agli 'occhi' del sistema immunitario, in modo che quest'ultimo possa attaccarlo e distruggerlo. Oggi, infatti, solo circa la metà dei pazienti risponde all'approccio dell'immunoterapia, che fa appunto riferimento all'attivazione del sistema immunitario per combattere il cancro, e la sfida attuale è di aumentare il numero di pazienti che rispondono positivamente. Per farlo occorre appunto 'preparare' il tumore a essere riconosciuto in modo più efficace.
È in questa direzione che stanno lavorando i ricercatori del Centro di Immuno-Oncologia (CIO) del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena diretti da Michele Maio: hanno infatti dimostrato che nei pazienti con melanoma, la somministrazione sequenziale di due molecole (guadecitabina e l'immunoterapico ipilimumab) migliora la capacità del sistema immunitario di riconoscere ed attaccare le cellule tumorali. I risultati dello studio NIBIT-M4, in collaborazione con altri centri italiani ed europei, vengono presentati a Chicago al congresso dell'American Society of Clinical Oncology (ASCO).
La strategia utilizzata ha cioè previsto la somministrazione di un farmaco, la guadecitabina, capace di determinare modificazioni chimiche nel Dna delle cellule tumorali per poterne modulare l'espressione genica: "Le modifiche generate da questo farmaco – spiega Alessia Covre, coautrice dello studio – fanno sì che le cellule tumorali esprimano, sulla propria superficie, molecole che hanno un ruolo fondamentale nell'interazione tra tumore e sistema immunitario. Così il tumore risulta maggiormente visibile alle cellule del sistema immunitario del paziente e la guadecitabina - conclude - crea le condizioni ottimali per fare in modo che i farmaci immunoterapici somministrati successivamente possano avere maggiore efficacia".
Lo studio, riportato nell'articolo dell’ International Journal of Molecular Sciences, si deve al Systems Biology Group Lab dell’Ateneo di Roma, diretto dal prof. Mariano Bizzarri, in collaborazione con la Aurora Biosearch di Bollate
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