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Dormire bene riduce il rischio cardiovascolare di tipo genetico

Medicina Interna Redazione DottNet | 18/12/2019 12:18

Lo conferma uno studio di Lu Qi, direttore del Obesity Research Center presso la Tulane University a New Orleans

Dormire bene controbilancia almeno in parte il rischio cardiaco individuale legato a fattori genetici.  È la dimostrazione che arriva da uno studio di Lu Qi, direttore del Obesity Research Center presso la Tulane University a New Orleans.  Pubblicato sull'European Heart Journal, lo studio mostra che anche se una persona per motivi genetici è ad alto rischio di infarto e ictus, questo rischio può essere almeno in parte annullato da un sonno regolare e riposante.

Gli esperti hanno considerato un campione di 385.

292 persone il cui Dna era stato analizzato alla ricerca delle variazioni genetiche note per indurre un rischio cardiovascolare. Il campione è stato suddiviso in tre gruppi in base al rischio genetico alto, medio e basso di ictus e infarto. Inoltre tutti i partecipanti hanno ricevuto un voto da 0 a 5 per il loro comportamento riguardo al sonno notturno, con 5 voto massimo (dato a persone mattiniere, che dormono regolarmente 7-8 ore di sonno a notte, non soffrono di insonnia e altri disturbi, non lamentano sonnolenza diurna).

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Ebbene è emerso che coloro che oltre ad avere un alto rischio cardiovascolare per motivi genetici avevano anche un voto pessimo per il sonno (da 0 a 1), presentavano un rischio quasi triplo di infarto e quasi doppio di ictus rispetto ai coetanei con basso rischio cardiovascolare e sonno eccellente.  È emerso anche che il rischio genetico cardiovascolare è in parte controbilanciato da sane abitudini al sonno, per cui una persona geneticamente ad alto rischio che dorme in modo sano ha una possibilità minore di andare incontro a infarto e ictus.  I ricercatori hanno stimato infine che se l'intero campione di individui coinvolti nel lavoro avesse avuto il voto massimo per il sonno, si sarebbero evitati un caso di infarto e ictus su 10 nell'arco di circa 8 anni e mezzo (tale è stata la durata dello studio). 

fonte: European Heart Journal

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