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Decreto appropriatezza e nuove regole sulle prescrizioni. Omceo Milano: Siamo pronti a ricorrere al Tar

Professione Redazione DottNet | 02/05/2024 17:15

Rossi: “È impossibile far rientrare in un codice una patologia specifica e spesso è multifattoriale. Questa è una assurdità che va condannata ed evitata con ogni mezzo”. Cimo-Fesmed: “Auspichiamo più interventi strutturali”

«Il ricorso al Tar l’abbiamo fatto contro il decreto appropriatezza di Beatrice Lorenzin, poi sospeso visto il ritiro e l’approvazione del decreto Lea; nulla ci vieta di farlo anche contro il decreto Schillaci. Dobbiamo solo attendere che venga pubblicato, con le premesse che abbiamo letto. Perché se sono davvero queste, allora significa che abbiamo lavorato più di 20 anni invano». Il presidente dell’Ordine dei Medici di Milano Roberto Carlo Rossi risponde alle anticipazioni delle nuove regole prescrittive, con codici e burocrazia, per i medici di famiglia e specialisti, utilizzando «parole acchiappa-consenso come diminuzione delle liste d’attesa e limitazione della medicina difensiva».

«Si parla di appropriatezza prescrittiva da molti decenni – spiega Rossi –. Già negli anni Novanta diventata materia di approfondimento universitario. Ciò che lascia esterrefatti è che si dica ancora che i medici si debbano ‘familiarizzare’ con questo tipo di logica. Peraltro, un costosissimo carrozzone di enti di controllo è impegnato ogni giorno a verificare le prescrizioni di farmaci e di esami, che giunge fino alla Corte dei Conti. Dunque, se c’è chi conosce alla perfezione queste regole sono proprio i medici del Ssn, di famiglia e specialisti. Dire dunque che i medici debbano imparare a conoscere queste regole è prima di tutto un obbrobrio storico, totalmente inaccettabile, al limite dell’insulto».

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Nel 2016 la ministra della Salute Beatrice Lorenzin predispose un decreto sull’appropriatezza, ricorda ancora Rossi - «dal taglio esclusivamente economico, con molti errori e senza alcuna condivisione con gli Ordini dei medici o le associazioni di categoria. Come allora anche oggi si parla nuovamente di limitare le prescrizioni, ma con altre motivazioni: ridurre le liste d’attesa e limitare la medicina difensiva. Ma in realtà sempre di soldi si tratta. Contro il decreto Lorenzin ci fu una forte levata di scudi e, come Ordine di Milano facemmo infatti ricorso al Tar – aggiunge Rossi –. Ma dopo un anno, il decreto venne sostituito dal decreto sui Lea che correggeva pesantemente il vecchio decreto, lo metteva sotto altra luce, decisamente più corretta, con indicazioni condivise da tutti, dando dunque ragione all’Omceo Milano».

Oggi la situazione è molto simile. «Pensare di ridurre le liste d’attesa con un decreto che va a misurare la prescrizione dei medici, è una contraddizione di termini. Una sciocchezza – spiega Rossi –. Ma c’è di più: il decreto vuole anche aumentare gli oneri di carattere burocratico. Perché teoricamente d’ora in avanti i medici dovrebbero inserire nel quesito diagnostico che ogni medico già prepara (è persino insultante dire che lo deve fare) anche dei codici, dei numeretti che fanno riferimento a tabelle preimpostate (ICD 9 – CM). Ma è impossibile far rientrare in un codice una patologia o un sintomo specifici: l’essere umano ha comunque sempre una sua complessità. Questa è una assurdità che va condannata ed evitata con ogni mezzo. Non solo perché aumenterà in modo inaudito il carico burocratico dei medici, ma anche il rischio di errore causato da migliaia di codici specifici. Senza contare che aumenterà l’attesa dei pazienti, le lamentele, le code. E le aggressioni e le minacce, verbali e fisiche, già sempre più all’ordine del giorno. Tutto ciò si ridurrà insomma ad una enorme gigantesca marea di tempo perso e tolto al paziente».

Il problema delle liste d’attesa è reale. «È un problema fisiologico legato all’essenza dell’essere umano – precisa Rossi –: nessuno, ovviamente, vuole ammalarsi e morire. Ciò porta il cittadino, il paziente, a cercare di fare tutti gli esami possibili per evitare e prevenire ogni tipo di malattia: ‘Mi faccia fare un checkup completo’ è la frase classica di chi, anche in ottima salute o con sintomi risibili, si rivolge al proprio medico. Ma questo è problema di tipo educazionale, dovrebbe essere insegnato nelle scuole di ogni ordine e grado. Serve un’azione corretta sulla appropriatezza prescrittiva: insegnare ai cittadini e futuri cittadini il corretto utilizzo del Ssn. Accettando anche le indicazioni del medico, quando dice che un esame non è necessario. A questo proposito, giudico, di nuovo, sostanzialmente nulla l’azione di questo emanando decreto sulla così detta medicina difensiva. Anche qui la prima cosa da fare è garantire al medico la protezione necessaria per le decisioni che prende – continua Rossi –. Perché quando accade qualcosa a un paziente, viene immediatamente attribuita la responsabilità al medico e subito si pensa ad intentare un’azione legale. L’educazione sanitaria ai cittadini deve comprendere anche questo punto. Un medico non è uno sciamano in grado di prevedere il futuro».

L’imminente decreto sulle liste di attesa, annunciato dal Ministro della Salute Orazio Schillaci, offre l’opportunità di esprimere il nostro punto di vista su una questione particolarmente sentita sia dai cittadini che dagli operatori sanitari. Affrontare, in sanità, la questione tempi di attesa è un po’ come approcciare un paziente con una patologia multiorgano che necessita di terapie specifiche, ma che invece viene curato con placebo. Le cause le conosciamo tutti: la ridotta offerta sanitaria, la carenza di risorse umane, l’inappropriatezza delle prestazioni, l’approccio demagogico verso la libera professione del medico”. A dichiararlo è Guido Quici, presidente del sindacato dei medici Federazione Cimo-Fesmed.

“Intanto in Italia – prosegue Quici – oggi ci sono oltre 2,12 milioni di famiglie che vivono in assoluta povertà, circa 6 milioni di famiglie che si trovano in una condizione di povertà sanitaria e 25,2 milioni di famiglie italiane che mediamente spendono poco meno di 1.500 euro l’anno per curarsi, con una spesa per out of pocket aumentata di 10 mld (oggi circa 40 mld) tra il 2019 e il 2022. Il tutto in un contesto, più ampio, che vede gli attuali LEA del tutto insufficienti con una sanità integrativa che diventa sempre di più sostitutiva. Quindi occorre una terapia molto più articolata che aggredisca contemporaneamente più cause”.

“Innanzitutto, dopo decenni di tagli a strutture e risorse umane, occorre rilanciare l’offerta sanitaria per iniziare a soddisfare i bisogni di salute espressi ed inespressi. Ha ragione Fiaso – afferma il presidente Cimo-Fesmed - quando afferma che il 30% delle richieste sono inappropriate, ma quante altre prestazioni sono inaccessibili ai cittadini per effetto della chiusura degli ambulatori o per il non ottimale utilizzo delle sale operatorie per carenza di medici? Esiste sempre uno stretto rapporto tra offerta sanitaria ed organizzazione legata alle risorse che le aziende sono in grado di mettere a disposizione. In secondo luogo, occorre adeguare gli organici abolendo il tetto di spesa sul personale ma a condizione che l’algoritmo elaborato da Agenas non sia peggiorativo rispetto alle reali esigenze, e su questo aspetto nutriamo forti dubbi sulla metodica adottata.

Naturalmente il tema dell’appropriatezza delle prestazioni è stato sollevato anche dal Ministro Schillaci. Come Sindacato riteniamo che buona parte delle prestazioni inappropriate sono legate alla medicina difensiva, il cui costo e stimabile nella misura di circa 10 miliardi/anno e, per questo motivo, la terapia da adottare consiste in una seria riforma sulla responsabilità professionale, riforma che non sembra, allo stato, foriera di buoni esiti, almeno dalle dichiarazioni del vice Ministro Sisto e dalle indiscrezioni che trapelano dai lavori della Commissione Nordio”. “Infine – prosegue Quici – la questione libera professione. Tanta demagogia solo per mascherare la ridotta offerta sanitaria. Sono sufficienti alcuni esempi: nel triennio 2019-21, si registrano oltre 1,3 milioni di prestazioni istituzionali in meno (-2,2%), circa 0,5 milioni di prestazioni libero-professionali in meno (-11,2%) con un rapporto, su 1000 abitanti, di 81 prestazioni ALPI su 999 prestazioni istituzionali (7,7%). Quindi, al di là di poche branche specialistiche, la libera professione non influenza affatto i lunghi tempi di attesa, anzi rappresenta un valore aggiunto che contribuisce a ridurli e, in più, genera introiti all’azienda. Eppure, sempre più spesso, si preclude al medico di un proprio diritto, quando non si è in grado di garantire l’accesso alle cure, mentre sarebbe auspicabile liberarlo da questi vincoli”.

Intanto, sempre in tema di riduzione dei tempi di attesa, poche aziende applicano il D.Lgs. 124 del 29.4.98 per assicurare la prestazione previo pagamento del ticket, c’è poca trasparenza sul reale utilizzo di risorse aggiuntive stanziate nelle finanziarie a favore di regioni e strutture private e permane il tetto di spesa del 2021 per le prestazioni richieste ai sensi dell’art. 89 comma 4 del Ccnl19-21. In attesa di conoscere il testo del decreto riteniamo invalicabili due principi: nessun ulteriore divieto ad esercitare la libera professione, istituto diverso dalle prestazioni aggiuntive e, soprattutto, riaffermare il carattere di eccezionalità e temporaneità delle stesse prestazioni aggiuntive finalizzate a ridurre i tempi di attesa. Di certo le seconde non devono mai impedire il diritto ad esercitare l’unica residua attività professionale che sancisce il diritto di scelta del cittadino verso lo specialista di fiducia e che induce molti medici a non lasciare ancora il SSN pubblico” ha concluso Guido Quici.

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