La gravidanza e l'allattamento sono situazioni impegnative per l'omeostasi scheletrica della donna. [1]
Abstract
L’osteoporosi associata alla gravidanza e all’allattamento (PLO, Pregnancy and Lactation-associated Osteoporosis) è una condizione rara ma potenzialmente debilitante che si manifesta con fratture da fragilità durante il terzo trimestre di gestazione o l’allattamento. Sebbene spesso si osservi un recupero spontaneo della densità minerale ossea (BMD, Bone Mineral Density) dopo lo svezzamento, l’uso di terapie farmacologiche come teriparatide e bifosfonati può accelerarne il miglioramento. Tuttavia, i dati sono limitati e manca un consenso sulle strategie ottimali. Il trattamento deve essere personalizzato, tenendo conto della severità clinica, dell’età e dei possibili rischi associati ai farmaci.
Durante la gravidanza, per garantire l’apporto di calcio necessario alla formazione dello scheletro fetale, nel corpo materno avvengono importanti cambiamenti nel metabolismo osseo e del calcio.[1] In tale contesto, l’osteoporosi associata alla gravidanza e all’allattamento (PLO), nota anche soltanto come osteoporosi associata alla gravidanza (Pregnancy Associated Osteoporosis, PAO), se puramente gravidica, rappresenta una condizione impegnativa e scarsamente compresa, caratterizzata dalla comparsa di fratture da fragilità.[2] Le lesioni ossee di questo tipo si verificano principalmente nel terzo trimestre di gravidanza e durante l’allattamento, manifestandosi con dolore acuto alla schiena e riduzione della densità minerale ossea (BMD).[1] Le sedi più comunemente colpite sono le vertebre T12, L1 e L2.[3] L’incidenza è stimata tra i 4 e gli 8 casi ogni milione di donne, anche se potrebbe essere ancora più elevata, in quanto una condizione potenzialmente sottodiagnosticata.[3]
Si presume che la perdita di osso, prevalentemente dai siti trabecolari, in combinazione con l’aumento del peso e la postura lordotica della gravidanza, determini le fratture vertebrali spontanee.[1] I sintomi principali comprendono forti dolori alla schiena, limitazioni funzionali e perdita di altezza.[3] Il mal di schiena secondario viene generalmente gestito con un’adeguata terapia analgesica e attraverso indicazioni sulle attività di carico e sulla mobilità.[2] Sebbene la prognosi a lungo termine della PLO sia buona, anche la qualità della vita e la capacità lavorativa vanno tenute in considerazione per un recupero ottimale.[1] Al contrario, le indicazioni e il tipo/durata ottimale di trattamento per la bassa BMD nelle donne con PLO sono attualmente poco chiare e non sono disponibili linee guida nazionali o internazionali.[2] Alcuni medici applicano un approccio osservazionale o ritardano il trattamento specifico a causa del previsto recupero fisiologico della BMD nelle donne dopo il parto o lo svezzamento.[2]
In letteratura sono stati riportati come possibili approcci terapeutici:
Difatti, alle donne affette da PLO viene spesso raccomandato di evitare l’allattamento o prolungarlo per la durata più breve possibile, in modo tale da massimizzare il recupero precoce della BMD e prevenire un ulteriore deterioramento osseo.[2] Inoltre, è fondamentale rimediare ai bassi livelli sierici di calcio e vitamina D con integratori per un adeguato recupero osseo.[2] In generale, il trattamento farmacologico per la ridotta massa ossea non è indicato, ad eccezione degli integratori di calcio e vitamina D, poiché la BMD si recupera completamente nell’anno successivo allo svezzamento e all’inizio del ciclo mestruale.[1] D’altro canto, il trattamento con farmaci anti-osteoporosi, come i bifosfonati (BP) anti-riassorbitivi, l’analogo dell’ormone paratiroideo (PTH) teriparatide e l’anticorpo monoclonale umano RANKL denosumab, si è dimostrato efficace nell’aumentare la BMD in diversi studi.[1]
Gli agenti antiriassorbitivi o anabolizzanti sono stati ampiamente utilizzati nelle pazienti affette da PLO per accelerare il processo di recupero e prevenire le fratture ricorrenti.[2] Nonostante l’eterogeneità tra gli studi in termini di tipo e durata del trattamento e la scarsità di dati comparativi, i bifosfonati e il teriparatide hanno mostrato un effetto considerevole e duraturo sulla BMD.[3] In uno studio multicentrico retrospettivo non comparativo, l’aumento annuale della BMD nelle pazienti trattate con bifosfonati o teriparatide si è dimostrato superiore a quello delle pazienti non trattate (rispettivamente 10,2%, 14,9% e 6,6%).[3]
Tuttavia, come già specificato, l’effettiva necessità di tali trattamenti resta incerta, poiché nella maggior parte dei casi si osserva un progressivo recupero spontaneo della BMD.[3] Inoltre l’impiego dei bifosfonati in gravidanza non è raccomandato, poiché studi su animali dimostrano che si accumulano nelle ossa e attraversano la placenta.[2] Sull’essere umano le evidenze disponibili non indicano che il trattamento con bifosfonati provochi anomalie congenite maggiori, tuttavia gli studi osservazionali sono stati eseguiti su un numero di pazienti limitato, non sufficiente per trarre conclusioni univoche sul profilo di sicurezza di questi farmaci.[1] Anche l’uso di teriparatide e denosumab è controindicato durante la gravidanza e l’allattamento e deve quindi essere usato con cautela nei gruppi di pazienti in età fertile.[1] Resta da ricordare che il teriparatide sembra essere abbastanza efficace e una scelta più sicura rispetto ai bifosfonati, poiché questi ultimi sono caratterizzati da una lunga ritenzione ossea, con conseguenze sconosciute sullo scheletro dell’embrione in eventuali gravidanze successive.[3]
In conclusione, la PLO è una condizione che compromette la qualità di vita delle donne in età riproduttiva.[3] Sebbene nella maggior parte delle pazienti si osservi un progressivo recupero della BMD dopo lo svezzamento, il teriparatide e i farmaci antiriassorbitivi potrebbero potenziarne ulteriormente il miglioramento.[3] Differentemente, i casi con manifestazioni lievi possono essere gestiti in modo efficace con misure conservative, come lo svezzamento tempestivo e l’integrazione con calcio e vitamina D.[3] Pertanto, a causa dell’elevata eterogeneità e della mancanza di dati comparativi solidi tra gli studi resta comunque difficile trarre conclusioni sicure sulla superiorità di un intervento rispetto a un altro nelle donne con PLO.[3]
Referenze:
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