
Triassi: "La sicurezza, in questo contesto, non è solo un obbligo normativo ma un principio etico e organizzativo. Proteggere chi lavora in sanità significa anche garantire cure migliori e più sicure ai pazient"
«Negli ultimi mesi la cronaca ha riportato diversi incidenti sul lavoro avvenuti in Campania, alcuni dei quali con esiti drammatici. Una sequenza di eventi che ha riportato con forza al centro dell’attenzione pubblica il tema della sicurezza, ricordando che non si tratta solo di una questione che riguarda i cantieri o le fabbriche, ma ogni luogo di lavoro, compreso quello sanitario». Lo ha detto la presidente del CIRMIS e docente di Sanità Pubblica alla Federico II Maria Triassi, a margine dell’incontro "Scenari di radioprotezione dei lavoratori nelle strutture sanitarie. A cinque anni dalla pubblicazione del D.Lgs. 101/2020", svoltosi presso l’Aula Magna del Centro di Biotecnologie dell’Università Federico II di Napoli. Anche chi opera in ospedale è infatti esposto a rischi specifici che richiedono tutele adeguate: dagli infortuni legati alle procedure cliniche all’esposizione a sostanze chimiche, biologiche e fisiche, come nel caso delle radiazioni ionizzanti utilizzate in radiologia, medicina nucleare e radioterapia.
«Il quadro normativo di riferimento è rappresentato dal Decreto Legislativo 101 del 2020, che ha recepito la direttiva 2013/59/Euratom e introdotto importanti novità», prosegue Triassi. «La legge stabilisce nuove soglie di esposizione per i lavoratori: la dose efficace non deve superare i 20 millisievert all’anno, mentre per il cristallino dell’occhio il limite è stato ridotto a 20 millisievert, una misura pensata per tutelare in modo particolare gli operatori che lavorano in radiologia interventistica o in sala operatoria». Il decreto rafforza inoltre il ruolo di figure fondamentali come l’Esperto di Radioprotezione, il Medico Autorizzato e lo Specialista in Fisica Medica, chiamati a garantire la corretta valutazione del rischio, la sorveglianza fisica e sanitaria, la formazione continua e il controllo di qualità sulle apparecchiature. Nei reparti che utilizzano sorgenti di radiazioni, la radioprotezione si traduce in pratiche quotidiane: progettare ambienti schermati, monitorare costantemente le dosi assorbite, utilizzare dispositivi di protezione individuale come camici o occhiali piombati, applicare protocolli ottimizzati e aggiornare periodicamente le competenze del personale. La cultura della sicurezza radiologica è dunque parte integrante della qualità assistenziale. Ridurre l’esposizione non significa diminuire l’efficacia diagnostica o terapeutica, ma al contrario migliorare l’appropriatezza e la precisione delle prestazioni. «La radioprotezione non è una pratica per pochi addetti ai lavori – conclude Triassi – ma un elemento essenziale di una cultura organizzativa che mette al centro le persone: chi cura e chi si cura. Investire in formazione, prevenzione e controllo di qualità significa ridurre i rischi, migliorare gli esiti e garantire ai cittadini che la sicurezza è parte integrante della cura».
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