Spesso sono relegate ad attività ambulatoriali o di reparto. Quando svolgono attività di sala operatoria, raramente lo fanno come primo chirurgo e il più delle volte solo nei casi più semplici
Chirurghe sulla carta, ma spesso relegate ad attività ambulatoriali o di reparto. Quando finalmente svolgono attività di sala operatoria, raramente lo fanno come primo chirurgo e il più delle volte solo nei casi più semplici. È questa la situazione professionale delle chirurghe italiane secondo uno studio promosso da Women in Surgery Italia e pubblicato sulla rivista Updates in Surgery.
La ricerca ha coinvolto oltre 1.800 chirurghe impegnate negli ospedali italiani, un campione piuttosto variegato che comprendeva dalle specializzande alle professioniste con molti anni di esperienza, formazione all'estero e qualifiche aggiuntive dopo la specializzazione.
"In Italia, finire la scuola di specializzazione e diventare chirurghe non significa fare effettivamente i chirurghi, anche se è ciò a cui si aspira", dice Gaya Spolverato, chirurga oncologa all'Azienda Ospedale Università di Padova e tra le autrici dello studio. "Molte di noi hanno il titolo, ma svolgono attività clinica e non di sala operatoria", aggiunge.
Le chirurghe denunciante anche condotte discriminatorie: il 61% delle intervistate ha dichiarato di essere stata trattata 'in modo diverso' in ambito professionale a causa del proprio genere; nello specifico il 50% ritiene di godere di "una considerazione generale inferiore" rispetto ai colleghi, il 47% di avere "meno possibilità di essere promosso" e il 44% di godere di 'meno tutoraggio/insegnamento'. La minore considerazione si riflette sull'attività svolta in sala operatoria: le chirurghe intervengono come primo operatore nell'8,4% dei casi ad alta complessità ma il 17% di quelli a bassa complessità.
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