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Cassazione, la ricetta bianca ha lo stesso valore della rossa

Medlex Redazione DottNet | 24/11/2020 18:35

Condannato per falso ideologico un medico che ha prescritto un farmaco senza conoscere il paziente

Commette il reato di falso ideologico il medico che prescriva un farmaco senza conoscere il paziente, anche se la ricetta è "bianca". Lo conferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 28847/20 (clicca qui pe leggere il testo integrale) depositata il 19 ottobre 2020. La pronuncia della Suprema Corte si rifà ad un  ricorso di un camice bianco condannato in sede di merito per aver compilato due ricette “al buio” in favore di un amico farmacista che aveva venduto degli anabolizzanti senza chiedere le necessarie prescrizioni. Un pronunciamento rilevante soprattutto perché la Suprema Corte chiarisce che questo vale anche per le cosiddette “ricette bianche”.

Il medico, con sentenza del 2019 della Corte di Appello di Torino, in riforma di quella pronunciata nel 2014 dal Giudice del Tribunale di Verbania, era stato condannato a pena di giustizia per il reato di cui all’art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità) e al pagamento di 500 euro di multa. Da qui l'opposizione del medico con la tesi che le ricette “incriminate” erano “bianche”

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Il sanitario ha quindi proposto ricorso per Cassazione - come riporta il sito Studio3A - esponendo un unico motivo: nel caso in esame, le due ricette sottoscritte nel 2012 non erano riferibili al Sistema Sanitario Nazionale, trattandosi di ricette così dette “bianche”, ossia ricette libere del medico di base: questi, pertanto, nello specifico non sarebbe stato qualificabile come pubblico ufficiale, bensì come esercente una professione sanitaria, e le due ricette in esame non potevano costituire certificati, bensì solo scritture private aventi natura autorizzativa, dato che non contenevano alcuna attestazione di fatti di cui l’atto stesso era destinato a provare la verità.

Secondo il ricorrente, si trattava di ricette su carta bianca in cui si prescrive un farmaco senza dare atto di uno stato patologico, quindi prive di valenza certificativa ed a contenuto meramente autorizzatorio, con cui il medico rimuove l’ostacolo che la legge frappone fra il cittadino ed il farmacista al momento dell’acquisto di un farmaco di cui è, appunto, consentita dalla legge la vendita solo se l’utente si munisca di apposita autorizzazione. In quei documenti, pertanto, mancava quel contenuto di dichiarazioni di scienza che connota i documenti individuati dalla fattispecie di cui all’art. 481 cod. pen., si legge su Studio3A.

Per la Cassazione, tuttavia, il ricorso è inammissibile. Gli Ermellini, peraltro, ricordano che l’istruttoria dibattimentale aveva accertato che presso la farmacia di Verbania in questione erano state acquisite due prescrizioni di Andriol, un farmaco a base di testosterone, rilasciate dall’imputato. E mentre in un primo momento il medico aveva affermato di aver prescritto il farmaco al proprio suocero di 89 anni, da poco operato alla prostata, il farmacista aveva ammesso di aver venduto, in realtà, anabolizzanti in assenza di prescrizione medica ad una sola persona e che, pertanto, aveva chiesto al dottore il rilascio delle due prescrizioni di comodo, indicandogli le date.

Anche la prescrizione su ricettario libero è un atto certificativo

La Suprema Corte ritiene pacifica la circostanza, già evidenziata dalla Corte di merito, che il medico avesse redatto le due prescrizioni farmacologiche su ricettari liberi, pertanto al di fuori dell’esercizio di attività in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale e quindi nel suo ruolo di libero professionista, “non potendosi pertanto attribuire al ricorrente la qualifica di pubblico ufficiale, bensì quella di esercente una professione sanitaria”.

Il contenuto della prescrizione, aveva però affermato la sentenza impugnata, era comunque di natura certificativa, in quanto attestava il diritto dell’interessato all’erogazione del medicinale in conseguenza del riscontrato stato patologico, ciò che, nel caso di specie, era reso evidente dal fatto che il medicinale prescritto era a base di testosterone, la cui commercializzazione è rigidamente regolamentata e subordinata a specifiche finalità terapeutiche.

La prescrizione farmacologica presuppone sempre l’accertamento della patologia

Ne consegue l’inquadramento della condotta ai sensi dell’art. 481 cod. pen., nonché la constatazione che la prescrizione farmacologica presuppone l’accertamento, da parte del medico, della sussistenza di una condizione patologica che giustifichi la somministrazione del prodotto, a prescindere dall’esplicitazione, sulla ricetta, della diagnosi correlata alla prescrizione” prosegue la Cassazione, che reputa quindi corretto l’inquadramento della fattispecie effettuato dalla Corte d’Appello.

Non provenendo da un pubblico ufficiale, i certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità non sono né atti pubblici, tutelabili a norma degli art. 476 o 479 cod. pen., né certificati amministrativi, tutelabili a norma degli art. 477 o 480 cod. pen. L’art. 481 cod. pen., infatti, prevede uno speciale titolo di reato per le falsità ideologiche relative a questi atti, che hanno rilevanza pubblica in quanto certificazioni, ma natura privata in quanto provenienti da soggetti non investiti di pubbliche funzioni puntualizzano gli ermellini.

I certificati di un pubblico ufficiale e quelli degli esercenti un servizio di pubblica utilità

Il certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale – spiega la sentenza – deve essere connotato dalla presenza di due condizioni: che l’atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate, e che, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell’atto preesistente.

A differenza del certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale, quindi, il certificato disciplinato e tutelato dall’art. 481 cod. pen. va individuato in qualsiasi attestazione di fatti rilevanti nell’ambito del servizio di pubblica necessità esercitato dall’autore dell’atto”, si legge su Studio3A.

Proprio questa delimitazione della categoria fa sì che i certificati di esercenti un servizio di pubblica necessità non sono certificati in senso proprio, in quanto possono anche richiedere un accertamento di fatti direttamente percepiti da parte dell’autore dell’atto“: in tal senso, quindi, si connota la differenza tra la categoria dei documenti tutelati dall’art.481 cod. pen. e la categoria dei certificati amministrativi provenienti da un pubblico ufficiale.

In conclusione,  “i certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità sono attestazioni private qualificate di una particolare rilevanza pubblica, che ne giustifica la tutela anche contro le falsità ideologiche, punite a norma dell’art. 481 cod. pen.; ma quando i relativi documenti sono oggetto di falsità materiale, per contraffazione o per alterazione, il reato configurabile è quello di falsità in scrittura privata previsto dall’art. 485 cod. pen.”

Non vi è alcun dubbio, quindi, alla luce della giurisprudenza di legittimità, che la prescrizione medica, documento compilato da un esercente la professione sanitaria, abbia duplice natura: “di atto certificativo, da un lato, in quanto presuppone una condizione di malattia o, comunque, di sofferenza del soggetto che richiede la somministrazione della terapia prescritta e, in tal senso, la prescrizione rappresenta l’attività ricognitiva, da parte del sanitario, circa il diritto dell’assistito all’erogazione di quello specifico medicinale; per altro verso, se ne apprezza la natura autorizzativa, in quanto la prescrizione rende fruibile detto diritto, consentendo all’amministrazione, tramite il servizio farmaceutico, la vendita del medicinale stesso, con rimozione di ogni ostacolo alla erogazione, escluse le ipotesi di farmaci “da banco”, per i quali com’è noto la vendita è libera, essendo gli stessi commerciabili a prescindere da prescrizione medica”.

La necessaria attività di accertamento a monte delle ricette per i farmaci

La Cassazione aggiunge poi che il reato di falsità ideologica in certificazioni amministrative deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione. In altre parole, alla luce della peculiare natura della prescrizione farmacologica, è evidente, anzitutto sotto un profilo logico, che tale documento “non possa essere considerato la mera riproduzione di un fatto già rappresentato da altri documenti: esso, infatti, presuppone un’attività di accertamento diretto da parte del sanitario che emette la prescrizione, che si pone in rapporto di funzionalità con il contenuto della certificazione stessa.

Questa attività di accertamento diretto può assumere varie forme, a seconda dei casi, “ma non può certamente basarsi sulla mera riproduzione di una semplice notizia, in quanto, nel prescrivere un farmaco specifico, il sanitario attesta che il soggetto fruitore appartiene ad una delle categorie rispetto alle quali il farmaco è destinato a produrre i propri effetti”. Questa attestazione si può basare, evidentemente, su svariate modalità ricognitive: su di una specifica visita del paziente, ovvero sul colloquio personale del medico con il paziente che gli riferisce determinati sintomi, o ancora sullo svolgimento di esami clinico-diagnostici, sulla pregressa conoscenza del paziente da parte del medico e sulle pregresse cure somministrategli: tutte modalità che, in ogni caso, “implicano una cognizione diretta della specifica situazione rispetto alla quale la prescrizione si pone come necessaria. Ciò che rileva, infatti, non è la specifica modalità ricognitiva a monte dell’attestazione, bensì la circostanza che un’attività diretta di ricognizione vi sia stata, posto che, a norma dell’art. 22 del Codice Deontologico adottato dal Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, il sanitario, nel redigere certificazioni, deve valutare ed attestare soltanto dati clinici che abbia direttamente constatato, ossia dati obiettivi di competenza tecnica che abbia personalmente accertato in totale aderenza alla realtà”.

Ad esempio, un sanitario che conosce già la situazione di un paziente, per averlo in cura da tempo, a fronte di determinati sintomi ricorrenti, sarà in grado di procedere ad una prescrizione anche prescindendo da una visita accurata, ed all’esito di un semplice colloquio con il paziente stesso. Al contrario, se lo stato patologico non sia riscontrabile a mezzo dell’esame obiettivo e/o degli accertamenti strumentali, il medico non può affermare di aver trovato il paziente affetto dalla patologia lamentata, “ma deve certificare solo che il paziente riferisce determinati sintomi: in sostanza, proprio l’art. 22 del Codice Deontologico prevede che il medico, nel redigere le certificazioni, debba attestare solo dati clinici che abbia direttamente constatato, al fine di evitare il rilascio di certificati di comodo”.

Il sanitario nelle ricette deve attestare dati clinici constatati, non prescriverle “al buio”

Non può quindi essere considerata attività ricognitiva – nonostante la prassi diffusa in tal senso, come ammette la Suprema Corte secondo quanto riporta Studio3A – quella del medico che prescriva un farmaco “semplicemente colloquiando al telefono con un assistito mai incontrato, il quale gli descrive determinati sintomi, senza averlo mai visitato e senza neanche conoscerne, ad esempio, le potenziali reazioni allergiche ad un determinato farmaco”.

Insomma, la prescrizione di un medicinale presuppone, in linea generale, che il medico abbia visitato il paziente e abbia riscontrato l’esistenza di una patologia o di un disturbo per la cui cura è necessario il farmaco prescritto nella ricetta. Un principio che vale in senso ampio, perché se il medico conosce il paziente ed è a conoscenza del tipo di patologia da cui è affetto (ad esempio nel caso di malattie croniche), può anche rilasciare la ricetta senza dover necessariamente visitare ogni volta il paziente. L’importante, però, ribadiscono gli Ermellini, “è che il medico non rilasci mai ricette “al buio”, senza essere sicuro della patologia esistente o basandosi soltanto su quanto gli viene riferito, senza aver provveduto a riscontrare oggettivamente la sussistenza della patologia.

Ne consegue, quindi, in relazione alla specifica natura della prescrizione farmacologica, che essa non può basarsi su di una mera notizia fornita da parte di chi la richiede. In questi termini – incalzano gli Ermellini – non può non convenirsi con gli approdi ermeneutici che hanno ribadito come un documento proveniente da un medico può qualificarsi certificato medico, ai sensi e per gli effetti di cui all’art 481 cod. pen., in quanto il suo contenuto rappresenti una “certificazione”, attesti, cioè, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, per cui il reato di falsità ideologica in certificazione amministrativa deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti, esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione”.

La ricetta “rossa” e quella “bianca”

Chiarito questo aspetto, la Suprema Corte si sofferma sulla differenza tra le varie tipologie di ricette, fermo restando però, ribadisce, che entrambe “condividono la medesima funzione accertativa”: in particolare, la differenza tra la ricetta redatta su ricettario regionale – che permette l’erogazione di farmaci e prestazioni a carico del servizio sanitario regionale – e la cosiddetta ricetta “bianca” del ricettario personale del medico, che permette comunque l’erogazione delle prestazioni e dei farmaci, a completo carico del cittadino.

La prima è anche detta ricetta “rossa” o “rosa”, così definita per la bordatura colorata dei campi in cui il medico ìnserisce i dati necessari, può essere compilata solo dai medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale e viene utilizzata per la prescrizione di una terapia farmacologica, di un esame diagnostico o una visita specialistica a carico del detto Servizio Sanitario Nazionale. I medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale utilizzano questo ricettario solo nell’ambito dell’esercizio della loro attività di medici del servizio stesso; se un medico svolge anche attività privata, in quel contesto egli non e più un “medico pubblico”, bensì un medico privato e, quindi, non può prescrivere farmaci, viste o esami a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma deve utilizzare esclusivamente la cosiddetta “ricetta bianca”, così come il medico ospedaliero che svolge anche attività libero professionale in intramoenia, ambito nel quale non può usare il ricettario regionale.

La ricetta bianca, invece, e quella che il medico compila su carta bianca, sulla quale devono essere, però riportati il nome e cognome del medico, la data, il luogo e la sua firma autografa. In questo tipo di ricetta, quindi, non sono necessari né il nome dell’assistito né l’indicazione dell’anamnesi, Con la ricetta bianca possono essere prescritte tutte le prestazioni di specialistica ambulatoriale, di diagnostica strumentale e di laboratorio, di norma correlate alla branca di specializzazione del medico, ed i farmaci e le prestazioni che saranno sempre a carico del cittadino assistito.

La ricetta redatta sul ricettario del Sevizio Sanitario Nazionale e la ricetta bianca differiscono, quindi, anche perché solo sulla prima devono essere indicato il nome e il cognome dell’assistito, il suo codice fiscale, il codice dell’Azienda Sanitaria di riferimento, gli eventuali codici e motivi di esenzione e l’eventuale nota AIFA pertinente, salva la richiesta dell’assistito che sul proprio nome e cognome sia apposta una etichetta adesiva per tutelare la sua riservatezza.

La ragione di tale differenza sta nel fatto che la prescrizione del Sevizio Sanitario Nazionale non occorre solo per ritirare i medicinali in farmacia, ma è necessaria anche al farmacista per farsi rimborsare dallo Stato il costo dei medicinali forniti agli assistiti. Questa ricetta, quindi, ha anche una finalità amministrativa e contabile, perché con essa il medico pone a carico della finanza pubblica la spesa dei medicinali, con la conseguenza che eventuali prescrizioni di farmaci a carico del Servizio Sanitario Nazionale che siano ritenute inappropriate, possono essere contestate al medico da parte della Corte dei Conti.

La ricetta bianca attesta comunque che il paziente ha diritto a un farmaco

Tali requisiti, al contrario, non sono richiesti per la “ricetta bianca”, data la sua funzione, “sicché  – puntualizza la Suprema Corte – proprio dette caratteristiche consentono di considerare non condivisibile l’affermazione secondo la quale anche tale tipo di ricetta implichi necessariamente la preventiva visita del paziente da parte del sanitario che la ha rilasciata, non potendosi considerare verificata, in virtù di un ingiustificabile automatismo, una circostanza che non corrisponde neanche ad un’informazione necessaria ai fini della compilazione della prescrizione, posto che l’anamnesi e la diagnosi non sono elementi essenziali ed indefettibili della ricetta bianca”.

Ciò nondimeno, concludono i giudici del Palazzaccio, il documento, come detto, “conserva intatta la propria valenza certificativa – su cui, quindi, può innestarsi il falso ideologico -, nella misura in cui attesti, attraverso la prescrizione, che l’assistito abbia diritto a quella specifica prestazione o a quel determinato farmaco, a prescindere, quindi, dalla peculiare modalità con cui l’accertamento medico è stato effettuato che resta, in questa tipologia di documenti, in un certo senso sullo sfondo, nella misura in cui non è richiesta una specifica tipologia di verifica da parte del medico, che non deve essere neanche attestata; ciò che rileva infatti, è l’attestazione che l’assistito rientri nella categoria dei soggetti aventi diritto alla specifica prestazione farmacologica.

Pertanto, nel caso di specie la valutazione operata dalla Corte territoriale risulta in linea con questo “incontrastato inquadramento giurisprudenziale”, dal momento che entrambe le ricette “bianche” rilasciate dall’imputato risultavano ideologicamente false, sia quanto all’identità dell’assistito a cui il farmaco era stato rilasciato sia, quindi, in riferimento alla totale carenza dei presupposti per la prescrizione del farmaco.

Ergo, ricorso respinto e condanna del medico confermata.

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