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Burnout: i medici chiedono aiuto. Le loro storie

Professione Redazione DottNet | 29/03/2020 18:30

Mencacci, il rischio è molto alto. Scatta il supporto psicologico delle Asl

Sono stati proprio loro, gli stessi medici e infermieri impegnati da settimane nelle corsie Covid a chiedere aiuto, un sostegno psicologico per allentare l'ansia e lo strazio. Per evitare il burnout professionale, per cercare di non restare 'bruciati', schiacciati dall'angoscia. In tutta Italia, ma soprattutto nelle zone più colpite dall'emergenza Coronavirus, Asl e ospedali hanno organizzato gruppi di ascolto psicologico o colloqui singoli con psicoterapeuti e psichiatri. All'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo si tengono due volte al giorno, a fine turno, i debriefing, così li chiamano, dove medici e infermieri possono raccontare l'esperienza della giornata, tentando di alleggerire il carico emotivo.

Al Fatebenefratelli-Sacco di Milano è stato organizzato il servizio 'Sos Stress' per gli operatori sanitari in prima linea. L'Asl Roma1 della Capitale ha attivato una linea telefonica dedicata. "Sono in tanti a volere assistenza. Raccontano di quei malati che chiedono aiuto con gli occhi, che ti si affidano completamente, che non riescono a respirare", racconta Emi Bondi, primario e direttore del Dipartimento di Salute mentale del Papa Giovanni. "Qui a Bergamo - continua - ogni infermiere, ogni medico ha dei contagi o dei lutti in famiglia per il Covid-19. Ma vengono a lavorare lo stesso. Come nel caso di una dottoressa di Alzano che nel giro di una settimana ha perso il marito e la madre, ma nonostante tutto torna al suo posto. Per tutti loro il rischio burnout è altissimo: la loro vita, a cominciare dalle piccole cose è totalmente stravolta".

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A questo si aggiunge l'ansia che cresce quando è il momento di andare via dall'ospedale, la preoccupazione di aver sbagliato qualcosa svestendosi e di portarsi a casa il virus, di infettare la famiglia. In tanti hanno scelto di dormire nelle vicinanze dell'ospedale, da amici o in altre sistemazioni, per non rischiare. "E poi c'è il rapporto con le famiglie dei pazienti - dice Bondi - nei reparti ci sono quattro medici a turno, due di loro tengono anche i rapporti con i parenti. I pazienti che respirano con il casco, nei momenti in cui stanno meglio chiedono di telefonare. I medici li aiutano anche con le video chiamate. E sono questi stessi medici che avvisano i familiari quando il malato non ce l'ha fatta. In questa situazione di continuo stress, ritmi intensi, senza riposi, la vicinanza alle persone che ci lasciano, ecco, tutto questo li espone ad un rischio di 'bruciatura'".

Dell'alto rischio di restare 'fulminati', come dicono in gergo, per chi tutti i giorni si confronta con l'epidemia, parla Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di salute mentale del Fatebenefratelli-Sacco di Milano: "Ogni mattina quando un medico, un infermiere mette piede in ospedale parte un turbinio incredibile", spiega, "dal momento in cui si vestono, mettono le protezioni, non possono più bere, mangiare, andare in bagno, fumare una sigaretta. E fanno turni massacranti. Sono condizioni di grandissimo sacrificio. Ma allo stesso tempo sanno che bisogna mantenere lucidità di analisi, di giudizio, di intervento. Rischiano di perdersi. Non bisogna arrivare a questo".

E sottolinea: "Questi professionisti hanno bisogno di decompressione, ascolto e sostegno emotivo, perchè per ognuno di loro oltre ai turni, non dimentichiamo, c'è anche la paura del contagio. Devono poter avere uno spazio in cui comunicano lo stato d'animo, l'angoscia. Altrimenti le troppe esperienze spaventose possono generare sintomi gravi: sensazione di non farcela, crollo della fiducia nel lavoro che si sta facendo, grande mal di stomaco, aumento della tristezza, difficoltà di concentrazione, nervosismo, disturbi del sonno. A cui si aggiungono la solitudine perchè non possono vedere i loro cari, e il cambiamento completo delle abitudini personali".

"Il rischio burnout per gli operatori sanitari in questo momento - chiarisce Mencacci - supera il 50% delle probabilità: "tutto dipenderà da quanto a lungo durerà l'emergenza. Hanno bisogno di tirare il fiato e tornare a un minimo di continuità esistenziale". Ma adesso tirare il fiato è difficile, anche se neqli ultimi giorni gli arrivi di contagiati nei pronto soccorso sono diminuiti, la battaglia continua. Come racconta Cinzia Cipolla, la 'bed manager' del Papa Giovanni di Bergamo, che da cinque settimane lavora senza mai guardare l'orologio. E' lei che ogni giorno deve cercare nel più breve tempo possibile, e nel caos di continui arrivi, i posti letto per trasferire i pazienti dai pronto soccorso ai reparti Covid. Per i malati che hanno un bisogno disperato di repiratori. "Mi alzo la mattina alle 5, comincio a lavorare alle 6 e rientro a casa alle 21. Ceno con mia figlia, le sto a distanza, non l'abbraccio. Poi vado a letto, ma già alle due di notte mi risveglio. E' difficile dormire, l'adrenalina non ti fa staccare".

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