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Malattia difficile, nessuna responsabilità medica

Medlex Redazione DottNet | 21/02/2022 17:14

Non c'è la responsabilità del medico curante perché non ha le competenze specifiche per diagnosticare una malattia complessa insorta dopo l'ultima visita, né quella dell'ospedale se la patologia è difficile da curare

Non c'è la responsabilità del medico curante perché non ha le competenze specifiche per diagnosticare una malattia complessa insorta dopo l'ultima visita, né quella dell'ospedale se la patologia è difficile da curare

Per la Cassazione non c'è responsabilità né per l'ospedale perché ha curato la paziente da una malattia difficile, né del medico curante perché la fibrosi polmonare era insorta dopo la visita di quest'ultimo. A nulla valgono i tentativi del marito di far ricadere la responsabilità della morte della moglie sui medici che l'hanno curata. Non rileva che l'ospedale si sia discostato dalla terapia precedente, né che la moglie non fosse stata informata sulle controindicazioni della nuova cura, visto che le infezioni insorte rientrano nelle normali conseguenze della terapia.

Questo quanto emerge dalla Cassazione n. 4587/2022 come riporta il sito StudioCataldi.

Un vedono agisce in giudizio per chiedere che venga dichiarata la responsabilità di un medico generico, di un primario di pneumologia e dell'ospedale in cui quest'ultimo operava, per la morte della moglie. L'attore contesta tardiva diagnosi della fibrosi polmonare che ha colpito la moglie e il non adeguato trattamento della malattia, effettuato tra l'altro senza il preventivo consenso della paziente, con conseguente condanna al risarcimento dei danni patiti in proprio e iure hereditatis.

Il giudice di primo grado accoglie solo in parte le domande, ritenendo fondata quella del mancato consenso informato con conseguente violazione dell'autodeterminazione della paziente, in quanto non informata della terapia a cui era sottoposta, con condanna dei medici al risarcimento danni dell'erede subiti in proprio, si legge su StudioCataldi.

La Corte d'Appello innanzi alla quale viene impugnata la decisione di primo grado precisa che:

  • l'attività istruttoria svolta fino a quel momento non era idonea a "dotare di chances la tesi attorea secondo cui la morte della moglie (affetta da una assai grave e veloce malattia polmonare con prognosi infausta) sarebbe stata causata da colpe mediche";
  • la terapia somministrata era quella prevista dallo stato dell'arte e che l'infezione cagionata dalla terapie rientrava tra gli effetti collaterali inevitabili di ogni cura a cui si ricorre nei casi estremi;
  • è infondata la tesi che attribuirebbe al medico la responsabilità della colpa ospedaliera per averne avallato le cure in quanto "il medico di famiglia rispetto ai medici specialisti di un determinato reparto ospedaliero, non (aveva) di norma né le competenze specialistiche, per sindacare l'operato terapeutico dei sanitari ospedalieri, né il potere di condizionare le condotte di essi sanitari, né alcuna compartecipazione alle scelte di essi, restando, sostanzialmente al pari di un congiunto del ricoverato, un mero visitatore", tanto più che dalla testimonianza resa dalla madre della defunta è emerso che lo stessa aveva visitato la donna in una data anteriore rispetto alla diagnosi della malattia.

Omessa diagnosi e mancata acquisizione del consenso

Nel ricorrere in Cassazione il vedovo lamenta difetto di motivazione in relazione alla responsabilità dei medici per omessa diagnosi e corresponsabilità per le scelte terapeutiche effettuate durante il periodo del ricovero. Con il secondo motivo di ricorso invece deduce motivazione assente, insufficiente e contraddittoria e l'omessa decisione sulla quantificazione del danno morale per violazione del consenso informato, sottolineando il fatto che i medici che hanno preso in cura la moglie si sono discostati dalla terapia precedente, a cui la stessa era stata sottoposta e che stava funzionando, ignorando e andando contro il parere dei sanitari del precedente ospedale. Informazioni sul cambio di terapia che, se la moglie avesse conosciuto, non avrebbe accettato. Con il terzo motivo il ricorrente contesta infine la condanna al pagamento delle spese, perché da compensare.

La Corte rigetta il ricorso per intero per le seguenti ragioni

Il primo motivo è inammissibile in quanto tende a sollecitare un riesame della valutazione compiuta dai medici, che come è nota, è preclusa in sede di legittimità. La censura non si confronta con la ratio della decisione nel punto in cui esclude la responsabilità del medico generico, del tutto estraneo alle cure messe in atto in ospedale, anche alla luce del fatto che i primi sintomi di fibrosi polmonare sono emersi dopo che la donna si era fatta visitare dal proprio medico e che il ricorrente non ha censurato la statuizione della sentenza della Corte che ha ritenuto non provata la circostanza che il medico, già in quella sede, aveva rilevato un peggioramento delle sue condizioni respiratorie.

Inammissibile anche il profilo della doglianza con cui si lamenta un error in iudicando perché, spiega il sito StudioCataldi, lo stesso si riduce in un apprezzamento dei fatti finalizzato a dimostrare la responsabilità medica per omessa diagnosi al medico curante e omessa indicazione di uno specialista capace di curare la moglie, esclusa dalla corte di appello. Inammissibile anche il secondo motivo sul quale è intervenuta una doppia conforme, anche perché generico nel contestare i criteri di liquidazione del danno morale per violazione del consenso informato e perché mira a una rivisitazione del giudizio di fatto, che è riservato al giudice di merito sulla responsabilità dell'ospedale e del medico specialista.

Infondato anche il terzo motivo di ricorso perché "il concetto di soccombenza rilevante ai fini della condanna alle spese si valuta sulla globalità della decisione di merito, non certo sulle eccezioni preliminari respinte".

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