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Cassazione, col paziente moribondo non c'è colpa medica

Medlex Redazione DottNet | 07/10/2018 18:52

Il medico che non rispetta le buone pratiche non ha responsabilità per la morte da infarto di un paziente la cui situazione era già gravemente compromessa

Colpa medica e nessuna possibilità di salvezza: la Cassazione con la sentenza numero 43794/2018 (clicca qui per scaricare il testo completo) chiarisce la responsabilità del medico nei casi in cui si riesca a dimostrare che in ogni caso il paziente non si sarebbe potuto salvare.

Secondo gli Ermellini anche se la sua condotta non è stata conforme alla buona pratica, il medico non risponde se la morte del paziente si sarebbe comunque verificata a prescindere dal suo intervento. Ne consegue che la semplice violazione delle linee guida e delle buone prassi da parte del sanitario non è una circostanza di per sé idonea a determinare la responsabilità del medico. Occorre anche accertare che il danno subito dal paziente non si sarebbe verificato se il sanitario avesse agito diversamente.

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Il fatto

Nel caso di specie, il paziente era giunto alla guardia medica in cui operava il sanitario imputato in giudizio. L’uomo lamentava forti dolori al torace e una sintomatologia che faceva pensare a un possibile infarto. Il sanitario, dinanzi a tale quadro clinico, non aveva effettuato l’elettrocardiogramma al paziente. Inoltre, non aveva stabilito alcun contatto telefonico con il servizio di UTC. Il paziente, dopo poco, è deceduto.

Nel corso del giudizio, tuttavia, era stato accertato che le omissioni contestate al medico non avevano avuto alcuna incidenza causale sulla morte del paziente. In sostanza, nel lasso di tempo tra l’arrivo dell’uomo presso la guardia medica e la morte non sarebbe stato possibile effettuare una valutazione diagnostica utile. Pertanto, se il paziente non poteva essere salvato non può sussistere colpa medico. Nel caso in oggetto, agire diversamente avrebbe avuto come unico risultato quello di perdere inutilmente tempo.

E non è tutto. Il caso oggetto della sentenza, mostra chiaramente che l’accertamento della violazione delle linee guida previste dalla comunità scientifica per il trattamento di un paziente che lamenta una determinata patologia non è sufficiente a far sì che il medico sia poi chiamato a rispondere dell’eventuale esito infausto di tale patologia. Per condannare un sanitario, dunque, occorre verificare che se il sanitario avesse agito diversamente, le cose sarebbero andate in maniera differente ogni oltre ragionevole dubbio.

Il dettaglio della sentenza

"La corte territoriale – spiega la Cassazione - nel ripercorrere la valutazione degli elementi di probatori acquisiti, ha ribadito, con diffusa e coerente motivazione, come tutte le contestate omissioni o negligenze relative alla dedotta violazione delle linee guida previste dalla comunità scientifica internazionale per il trattamento di un paziente che presenta una chiara sintomatologia da sindrome cardiocircolatoria, potendo disporre di idonea strumentazione (vale a dire: monitorare il paziente per avere una traccia Ecg grafica per valutare il ritmo cardiaco, incanalare una vena periferica per somministrare farmaci ed eventuale terapia iniettiva, praticare terapia medica iniziando dall' aspirina sublinguale e somministrazione di eparina a basso peso molecolare in attesa del trasferimento del paziente, evitando di somministrare farmaci antidolorifici e seguire l'evoluzione, controllando la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca, utilizzando eventualmente dei farmaci come betabloccanti ed assistenza respiratoria con ossigenoterapia) o non si erano verificate o non avevano avuto alcuna incidenza causale concreta sulla morte del paziente".

Questo "in relazione al breve lasso di tempo intercorso fra il  momento del’arrivo presso la guardia medica e I' evento infausto". Tempo in cui non sarebbe stato possibile effettuare una valutazione diagnostica con il reparto di cardiologia del  servizio UTIC, ma anzi, si sarebbe rivelata "una perdita di tempo che non sarebbe stata utile al paziente".

Secondo la Cassazione la Corte d’appello "valorizzando il percorso scientifico dei periti nominati dal tribunale ha correttamente proceduto a escludere la responsabilità del medico ritenendo che la condotta del sanitario benché non conforme alla buona pratica non aveva avuto un ruolo causale nel determinismo dell'evento morte che alla luce del quadro clinico si sarebbe, comunque, verificato oltre ogni ragionevole dubbio ".

Secondo a sentenza, tutte le omissioni o negligenze contestate relative alla violazione delle linee guida previste dalla comunità scientifica internazionale per il trattamento di un paziente che presenta una chiara sintomatologia da sindrome cardiocircolatoria, potendo disporre di idonea strumentazione o non si erano verificate o non avevano avuto alcuna incidenza causale concreta sulla morte del paziente. Quindi "in presenza di una pronunzia assolutoria, confermata in secondo grado, non sussiste alcuna violazione dei principi sopra richiamati avendo la Corte d'Appello, nell' esercizio dei suoi insindacabili poteri ritenuto di non dare corso ad alcuna rinnovazione dell'audizione dei testimoni indispensabile solo in ipotesi di reformatio in peius, atteso che "l'applicazione della regola dell'immediatezza nell'assunzione di prove dichiarative decisive si impone unicamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiché è solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio - operante solo pro reo e non per le altre parti del processo - sulla valenza delle prove dichiarative".
 
Secondo la Cassazione è proprio questa incidenza asimmetrica del principio del ragionevole dubbioche opera in favore del solo imputato, rende necessitato il ricorso al metodo di "assunzione della prova dichiarativa, unicamente per il sovvertimento in appello della decisione assolutoria di primo grado. Trova così una razionale giustificazione, alla stregua delle regole costituzionali del giusto processo, il diverso e meno rigoroso protocollo di assunzione cartolare della prova dichiarativa nell'ipotesi della riforma di una sentenza di condanna".
 
La Corte conclude che "il principio di immediatezza agisce come fondamentale, ma non indispensabile, connotato del contraddittorio e non è affatto dotato di valenza costituzionale autonoma, subendo anzi svariate, e del tutto giustificate, deroghe (con riferimento, ad es. alla possibile valutazione di prove precostituite) nella disciplina processuale ordinaria. Di certo, però, esso non può essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l'ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali»" e per questo dichiara infondati tutti i motivi di impugnazione della sentenza della Corte d’Appello, rigetta sia il ricorso del P.G. che i ricorsi delle parti civili che condanna al pagamento delle spese processuali.
 

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